La battaglia sulla nuova legge del riso, in discussione al Senato dopo l'approvazione nella Camera e rinviata, con un nulla di fatto a dopo la Finanziaria, preoccupa tutta la filiera risicola (agricoltori e industriali) che sta cercando di smussare gli angoli e superari i contrasti per arrivare a un traguardo che accontenti tutti e ponga tutta l'attenzione sul cosumatore. Dopo un proluntato silenzio scende in campo il presidente dell'Ente nazionale risi che, quasi a smentire il fatto che si tratti di un ente fantasma, riesce a rendere ancora più confusa la situazione sostenendo che (bontà sua) il raggruppamento di alcune varietà non danneggerebbe il consumatore.
Ma vediamo come si è arrivati all'ennesima stupidata dopo che gli Stati generali del settore si sono riuniti al Centro ricerche dell'Ente risi di Mortara (Pv) per un confronto serrato con l'intenzione di evitare che il disegno di legge, promosso per superare la disciplina del 1958 sulla commercializzazione rischi di tramutarsi in un accordo non chiaro a scapito dei produttori, industriali della trasformazione, dei consorzi di tutela e soprattutrto dei consumatori.
Dopo l'incontro Piero Garrione (nella foto a destra), presidente dell'Ente nazionale risi, che nei prossimi giorni incontrerà Confagricoltura, Coldiretti e Cia, ha in partioclare dichiarato a "La stampa" che «è un errore pesare che questa nuova disciplina possa essere una scorciatoia per raggirare il consumatore. L'assimilazione dei gruppi varietali in un'unica confezione, così come prevede un articolo della legge, non è assoluta novità. Già la vecchia legge lo prevedeva. Con quella nuova si vuole ulteriormente ribadire il concetto del miglioramento genetico, molte varietà tradizionali hanno problemi di carattere agronomico e sono in via di estinzione. Alcune possono essere raggruppate: quando un granello ha caratteristiche simili e parametri biometrici uguali alla capogruppo il problema non esiste. Noi e l'industria abbiamo bisogno di varietà che siano prolifiche e possiamo esportare solo se disponiamo di quantitativi sufficienti, altrimenti rimaniamo ancorati alle nicchie di paese. Va bene mantenere il mercato di nicchia, ma al tempo stesso occorre lasciare la possibilità a tutti gli altri di promuovere il riso made in Italy, ma tutto questo se alle spalle c'è una massa critica… Ecco perché occorre avere una visione complessiva e farsi carico delle esigenze di tutti».
La bomba è scoppiata dopo che la nuova legge apre la possibilità d'inserire in un'unica confezione varietà similari per caratteristiche e parametri biomedici, per esempio raggruppare il blasonato Carnaroli (più costoso da produrre) con il Karnak, varietà omologa, più coltivata ma meno pregiata (e con scarso valore in cucina...) e l'esclusione dalla legge delle varietà Dop e Igp.
Dopo le proteste del Consorzio di tutela delle varietà tipiche, capofila di un gruppo di risicoltori, tra cui il Consorzio per la tutela del riso Vialone nano veronese, con un appello rilanciato da "Italia a Tavola" e poi ripreso da Slow Food, Associazione professionale cuochi italiani, Accademia italiana della Cucina, associazioni di giornalisti e di categoria, il relatore della legge, l'on. Roberto Rosso (Pdl) è riuscito a far approvare alla Camera un emendamento alla "sua" proposta di legge (n. 1991 'nuova disciplina del commercio interno del riso”) per suddividere il Carnaroli in 'speciale” e 'grezzo”.
La soluzione non è piaciuta a chi invocata al tutela della qualità e il senatore Lorenzo Piccioni (Pdl), vicepresidente Commissione agricoltura al Senato ha quindi proposto il compromesso di escludere dalla legge il Cranaroli e tutte le varietà storiche.
Ed è su questa onda lunga di crescente protesta che va segnalato l'intervento di Clara Ippolito, giornalista della rivista "Cucina e vini", che nel 2008 ha ricevuto il riconoscimento Airone d'Argento proprio per i suoi servizi sul riso vercellese. «Complice il clima festaiolo, slitta a gennaio - scrive Ippolito - la discussione sul disegno di legge riguardante il riso, che ammette di accostare al Carnaroli varietà simili di diversa provenienza. Dopo essere stata approvata alla Camera, è giunta al Senato dove in prima istanza non è approdata a nulla. è un po' come dire che si è rimandato a domani quello che si sarebbe potuto fare ieri, se non ci fosse stata di mezzo la pressione dell'industria risicola che vorrebbe inficiare la distinzione tra le varietà storiche e le innumerevoli tipologie senza patria e senza famiglia in commercio: tutto questo con buona pace del concetto di filiera, biodiversità, qualità, consumo consapevole e trasparenza. Come dare una spiegazione a tutto questo?
La prima cosa che viene da pensare è che nel nostro Paese le pause festive - Natale, Pasqua o Ferragosto che sia – non si sa come, ma arrivano sempre a proposito, galeotte occasioni per procrastinare, prendere tempo e divagare pur di non decidere, magari cercando di capire nel frattempo come si può aggirare l'ostacolo; e noi non possiamo fare a meno di chiederci se, una volta passata la festa, ci aspettino delle sgradevoli sorprese.
Una siffatta proposta porterebbe, inoltre, a una babele di gusti e sapori, vanificando quel progetto di educazione del gusto perseguito da molti (tra cui noi) con scritti, parole e fatti allo scopo di far conoscere e apprezzare il riso, anche laddove questo cereale non fa parte della tradizione culinaria locale. Divulgare le potenzialità di un alimento versatile, dalle mille virtù gastronomiche e nutritive, è diventata perciò nel tempo una sorta di crociata contro i risi anonimi, la cui identità si svela peraltro al primo assaggio.
Così lo spostamento a gennaio della vexata quaestio - lasciata in stand by addobbata di luminarie abbaglianti - preoccupa non poco, perché è stata considerata evidentemente come una faccenda di poco conto da sbrigare alla chetichella nel propizio torpore post-festaiolo. Sarebbe stato, invece, urgente a nostro avviso discutere dell'inquietante possibilità che si potrebbe arrivare a fare d'ogni erba un fascio, mettendo nello stesso calderone il riso industriale e le varietà storiche appannaggio da secoli di Piemonte, Lombardia e Veneto. Per questo i produttori che tentano da anni faticosamente di portare avanti una tradizione antica mettendoci la faccia per garantire ai consumatori qualità e una corretta informazione, reclamano a gran voce l'imprescindibile necessità di distinguere a chiare lettere tra le diverse tipologie.
Siamo convinti, quindi, della necessità che gourmet, giornalisti di settore, buongustai e gente comune si uniscano in una protesta collettiva e pacifica in difesa del riso, manifestando per iscritto il proprio parere e reclamando di poter conoscere nome e cognome del riso che si comprerà per fare timballi, sartù, risotti e torte: perché il diritto di scegliere e sapere cosa portiamo in tavola è innegabile e sacrosanto».
Una posizione che fa chiaramente a pugni con quella degli industriali. Basti ricordare cosa ha dichiarato a "La stampa" Mario Francese, vicepresidente dell'Airi (l'assocazione degli industriali che vogliono unificare le varietà) e leader di Euricom ha dichiarato in proposito sempre a "La Stampa": «Adesso dobbiamo fare una panoramica con i sindacati agricoli e vedere quali sono gli umori, per individuare un percorso comune. Prematuro parlare di compromesso, ma certo è che la soluzione dovrà accontentare innanzitutto il consumatore. Stiamo affrontando tematiche reali, tenendo conto che si parli di 300mila tonnellate di riso. Occorre la massima attenzione e mai come in questo momento una parola in più può essere fuori luogo».
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