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Nella battaglia del riso i piemontesi puntano sulla qualità

Il confronto sulla classificazione delle varietà del riso resta ancora aperto, dopo la recente approvazione alla Camera di una doppia classificazione del Carnaroli. Mentre il dibattito prosegue, approfondiamo le caratteristiche e la storia della piana risicola piemontese e delle sue sottozone

di Piera Genta
12 dicembre 2009 | 15:32
Nella battaglia del riso 
i piemontesi puntano sulla qualità
Nella battaglia del riso 
i piemontesi puntano sulla qualità

Nella battaglia del riso i piemontesi puntano sulla qualità

Il confronto sulla classificazione delle varietà del riso resta ancora aperto, dopo la recente approvazione alla Camera di una doppia classificazione del Carnaroli. Mentre il dibattito prosegue, approfondiamo le caratteristiche e la storia della piana risicola piemontese e delle sue sottozone

di Piera Genta
12 dicembre 2009 | 15:32
 

Il confronto sulla classificazione delle varietà del riso resta ancora aperto, dopo la recente approvazione alla Camera di una doppia classificazione del Carnaroli ('speciale” e 'grezzo”) che ha fatto molto discutere non solo all'interno del Consorzio di tutela, ma in tutta la filiera, chiamando in causa associazioni di consumatori e produttori. Mentre il dibattito prosegue, andiamo a conoscere le caratteristiche e la storia della piana risicola piemontese, che presenta una suddivisione in due sottozone: Baraggia e bassa Vercellese.

La Baraggia
La Baraggia ('brughiera”) per molto tempo è stata considerata una terra povera, bonificata solo verso il 1922 e trasformata in terra adatta alla coltura risicola. Si tratta di un'area pedemontana che dalle Prealpi del monte Rosa degrada fino a nord di Vercelli. A partire dal XVI secolo e con i primi anni dell'Ottocento con la costituzione dei consorzi di irrigazione e il completamento delle reti irrigue l'area assume l'aspetto dei giorni nostri.

La piana risicola interessa 28 comuni, per una superficie complessiva di 24mila ettari (pari a quasi tutta la risicoltura francese). 15mila ettari sono quelli interessati nella produzione delle 7 varietà Arborio, Baldo, Balilla, Carnaroli, S. Andrea, Loto e Gladio. Si producono 800mila quintali di risone. Il Riso di Baraggia biellese e vercellese è Dop dal 2007.

La bassa Vercellese
Tutti noi conosciamo il lungo viaggio che il riso ha compiuto dall'Oriente per arrivare da noi. Ma partiamo dalla fine del Medioevo quando la coltivazione si estende in Francia per arrivare in Italia seguendo l'epopea agraria del tardo monachesimo. Per coltivare il riso è necessaria una complessa organizzazione territoriale e grande disponibilità di terre e di risorse idriche. L'organizzazione dei monaci Cistercensi, arrivati dalla Francia, chiamati dai Marchesi di Aleramo a reggere l'abbazia di Lucedio (Trino, Vc), si presta all'esperimento soprattutto in queste terre argillose. L'ordine cistercense era derivato da quello benedettino. Furono loro a disboscare la vasta zona intorno a Lucedio creando così le prime 'grange” (dal latino volgare granica, granaio), vaste tenute che il monastero gestiva con sistemi all'avanguardia. Nella grangia viveva una classe di lavoratori religiosi, erano uomini liberi, detti conversi. Le grange erano 6 per un'estensione di circa 3mila ettari. Risale ai Cistercensi l'ideazione di canali per lo sgrondo delle acque.

Lucedio sorgeva al centro di una grande foresta planiziale estesa da Crescentino al fiume Sesia e consacrata ad Apollo. Tra la fine del XII e quella del XIII secolo, Lucedio fu molto ricca e potente con possedimenti sparsi su tutto il territorio piemontese. Agli inizi del XIV secolo comparvero i segni di una crisi economica, anche a seguito dell'istituzione di nuovi ordini religiosi. Fu trasformata in commenda. Alla fine del 1700 venne secolarizzata, passò all'ordine Mauriziano e poi ceduta con tutte le grange a Vittorio Emanuele Duca d'Aosta; passata a Napoleone e poi di mano in mano fino al 1861, anno in cui diventava principato e il marchese Raffaele de' Ferrari fu nominato principe di Lucedio per meriti militari. Il nipote tenne il titolo fino al 1937, anno di acquisto degli attuali proprietari, la contessa Cavalli d'Olivola. Oggi il principato di Lucedio conserva dell'antico edificio medioevale, il campanile e l'aula capitolare, rimanendo una delle più belle opere architettoniche del vercellese.



Curiosità
Un documento del 1253 ora nell'archivio arcivescovile di Vercelli attesta che agli infermi dell'Ospedale S. Andrea veniva somministrato riso e mandorle. Dello stesso periodo nel registro delle spese dei Savoia il riso era elencato tra i prodotti acquistati ed utilizzati per preparare i dolci. Sempre con riferimento all'introduzione del riso in Italia settentrionale il commendatario dei beni dell'Ospedale maggiore di Vercelli fu citato in giudizio dagli affittuari di una cascina situata su terre acquistate dall'Ospedale per il mancato rimborso delle spese sostenute per miglioramenti del fondo: era stata costruita una pileria, ossia un impianto di raffinazione del riso. Prova questa di una pratica risicola in corso e di una metodologia conosciuta di lavorazione del prodotto.

Quattrocento
Dopo le sperimentazioni dei Cistercensi la coltura sarebbe arrivata dalla Lombardia negli ultimi anni del Quattrocento. Si trattava di coltivazione estensiva ed offre numerose opportunità di lavoro a persone, originari della montagna o delle terre più povere.

Cinquecento
Nella seconda metà del Cinquecento l'afflusso di questa nuova manodopera nel vercellese fu resa più agevole dalla lungimiranza del duca Emanuele Filiberto, il quale abolì la servitù della gleba. Dalla fine di questo secolo si diffuse gradualmente la mezzadria. L'allevamento del bestiame era una peculiarità delle grandi aziende agrarie del vercellese, dotate di bovini sia per la carne ed il latte sia per il lavoro dei campi.

Seicento
Il Seicento fu un periodo di guerre, non c'era tempo per lo sviluppo agricolo.

Settecento
Intorno agli anni cinquanta del Settecento, quasi un quarto del territorio piemontese coltivato a riso si trovava nel vercellese. La diffusione del cereale non fu proprio indolore, accusata di apportare miasmi malarici, infatti la risaia anche nel vercellese come nel novarese e nel Pavese fu vittima di misure restrittive e di grida di protesta da parte di autorità laiche e religiose. Il Settecento nonostante fosse segnato da guerre che devastarono il territorio fu epoca di incremento delle colture, della produzione è anche il momento in cui si sviluppa la pianificazione della rete di canali: Vittorio Amedeo III destinò a questo scopo le somme ricavate dalla vendita dei beni dei Gesuiti, incamerati dallo Stato dopo la soppressione dell'Ordine.

Ottocento
Nell'Ottocento l'acqua arriva dappertutto. L'allora ministro dell'agricoltura, Camillo Benso conte di Cavour, preparò un progetto, innovativo per l'epoca, cioè quello di affidare direttamente agli agricoltori riuniti in una associazione la gestione delle acque. Nacque così l'Associazione di irrigazione all'Ovest del Sesia, riconosciuta per legge nel 1853. Ben 3.500 agricoltori si riunivano e l'appellativo 'Consorzio irriguo” comparve per la prima volta nel Codice italiano. Aveva all'attivo ben 23 canali. Negli anni sessanta dell'Ottocento fu concepita la stazione idrometrica sperimentale di Santhià per misurare la quantità di acqua distribuita agli utenti. Nel 1860 si sono censiti ben 30mila ettari di risaie nel vercellese.

Novecento
All'inizio del Novecento, la risicoltura costituiva l'attività agricola nettamente maggioritaria nel vercellese, si confermava la preponderanza del latifondo. Si diffonde anche il trapianto e la monda, metodi arrivati dall'estremo Oriente, passati dalla Spagna e fatti sperimentare dal senatore Novelli presso la stazione di Cerealicoltura di Vercelli (nata nel 1908).

Fase politica del lavoro
La fase politica del lavoro in risaia inizia a partire dalla metà dell'Ottocento. In origine il lavoro in risaia era affidato prevalentemente a uomini, ma a partire dalla prima guerra mondiale, le donne si sostituirono agli uomini in misura sempre crescente. Il Vercellese fu precoce nel costituire organizzazioni del lavoro, nel 1901 nasce a Vercelli la Camera del lavoro e la Federazione regionale agricola piemontese. Nacquero due giornali di riferimento 'La Risaia” il cui primo numero uscì nel 1900 e cui nel 1903 si affiancò 'La Monda”. La Risaia diede vita al movimento di opinione tra i lavoratori trattando il progetto di legge dal quale sarebbe potuta scaturire una diminuzione dell'orario di lavoro dei mondariso, uomini e donne. L'accordo venne raggiunto a settembre del 1906 a seguito di una manifestazione cui parteciparono circa 12mila persone. Arrivando a stabilire la riduzione a nove ore massime giornaliere per i lavori di monda con un salario di 25 centesimi all'ora. Nel 1910 divenne poi operativo un accordo, primo nel mondo del lavoro del nostro paese, sulla riduzione dell'orario lavorativo a 8 ore per tutti i lavoratori del settore riso.

Cascine storiche del Vercellese
Intorno all'abbazia di Lucedio continuano a esistere alcune cascine fondate dai monaci. La loro struttura è quella della cosiddetta cascina a corte chiusa, con corpi di fabbrica sviluppati intorno a cortili chiusi verso l'esterno. Secondo documenti di archivio queste strutture si sono sviluppate nel Vercellese e Novarese e poi si sono adottate in tutte le campagne della Pianura padana. Dentro le corti esisteva la 'casa da nobile” utilizzata come residenza di villeggiatura dei proprietari. Nel basso Vercellese si può citare la cascina La Colombara a Livorno Ferraris, risalente al XVI secolo, e la tenuta Darola a Trino. La disposizione a struttura chiusa, attorno a una vasta aia, era utilizzata per doppio scopo: difesa in caso di attacco e di pericolo per contagio. Le cascine del riso hanno spesso nomi storici e si chiamano 'tenute”, per marcare il carattere di latifondo, più che semplici cascine erano delle vere e proprie frazioni. La cascina risicola è specializzata e viene utilizzata per il riso, i suoi addetti ed i macchinari da risaia. Si accede da un grande portone d'ingresso ed in alcune si possono ancora vedere le scritte dei locali produttivi, dei dormitori delle mondine e dei braccianti. Fino alla prima metà del XX secolo erano dei veri e propri villaggi autonomi, dove vivevano molte famiglie, e si trovava la scuola, la bottega, il mulino, la chiesa.



Riso e cinema
Il film 'Riso amaro” del 1949, regista Giuseppe De Santis, con Silvana Mangano, immagine di sensualità che diventerà un'icona del neorealismo ma anche della mondina e della vita in risaia, è girato nella tenuta - allora proprietà di Gianni Agnelli - Veneria a Lignana, ora appartenente della Saiagricola del Gruppo fondiario Sai. Veneria sorge sul basamento del convento dei frati Umiliati. I manifesti del film furono di Renato Guttuso. Ottenne la nomination all'Oscar. Nel 1956 venne girato nelle risaie novaresi 'La risaia” di Raffaello Matarazzo.

Ente nazionale risi
Al termine della prima guerra mondiale la risicoltura incontrò un periodo di crisi per l'importazione di prodotto a prezzi più bassi dai paesi asiatici. Tra i diversi interventi presi dal governo fu l'istituzione dell'Ente nazionale risi nel 1931 per promuovere la coltura a livello produttivo, industriale e commerciale. Furono avviati programmi di ricerca, costruiti magazzini ed essiccatoi collettivi, fissato il prezzo del riso a livello nazionale.

Varietà coltivate
Fino al 1850 l'unica varietà di riso esistente in Italia era il Nostrale; all'inizio dell'800 viene introdotta il Cinese, proveniente dalle Filippine, portata in Piemonte nel 1839 da un missionario, padre Calleri. Questa varietà di riso si diffonde rapidamente soppiantando le altre. In questi anni si inizia a mettere un po' di ordine con la creazione dei costitutori delle varietà di riso: il primo selezionatore è un certo Ranghino di Vercelli che nel 1887 produce la varietà che porta il suo nome. Con la creazione dell'Istituto sperimentale di Vercelli nel 1908 iniziano la selezione e l'ibridazione su vasta scala. La stazione ebbe una sua cascina e una rivista, 'Il giornale di risicoltura”. Nei primi decenni del Novecento molto diffuso nel vercellese era il Maratelli, cancellato dal registro delle varietà nazionali dal 1982 e rinato con il nome di Nuovo Maratelli grazie a un risicoltore di Balzola (Al). Nel 1915 superficie coltivata era di 130-140mila ettari. Gli anni Sessanta ne siglarono la decadenza, da un lato per il costo della manodopera, poi per l'uso dei diserbanti chimici. In parallelo si ebbe la diffusione della pratica della semina diretta, la massiccia introduzione delle macchine, quindi la drastica riduzione della manodopera e lo spopolamento delle campagne e l'abbandono delle cascine. Si inizia quindi una specializzazione della coltura del riso, spariti gli allevamenti. Basti pensare che oggi un'azienda risicola di 500 ettari si conduce con solo 6-7 operai.

Borsa risi
Dal 1974 a Vercelli abbiamo la Borsa risi, dove si contrattano direttamente gli acquisti del riso. è un organismo autonomo gestito dalla Camera di commercio. Negli anni Novanta il processo di globalizzazione ha messo a dura prova la competitività del riso italiano, un prodotto che ha caratteristiche qualitative di eccellenza ma che da noi è coltivato a costi nettamente superiori rispetto a quello egiziano, asiatico e americano.

Nel 2008 la provincia di Vercelli conta 86mila ettari coltivati sui 238mila totali, pari al 36%. Se si sommano i 34mila ettari della provincia di Novara siamo al 50% della superficie italiana, 238mila ettari. La resa per ettaro va dai 45 quintali del Carnaroli fino ai 60-80 di altre varietà meno delicate. Per ogni 100 kg di risone si ricavano 60 kg di riso bianco. Per ogni ettaro di terreno occorrono 10 moduli di acqua all'anno. Ogni modulo equivale a 100 litri d'acqua al secondo.

Consorzio di tutela: www.consorziotutelariso.it


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