Che l'agricoltura in generale, dal settore lattiero-caseario a quello vinicolo, sia in difficoltà lo sappiamo bene, ma di certo il comparto risicolo non può dirsi tranquillo. A maggior ragione se si pensa che fra poche ore potrebbe essere scosso da una bufera che, in nome dell'etichettatura, ne potrebbe sconvolgere equilibri e, soprattutto, quella garanzia di qualità che i nostri produttori sono finora riusciti ad assicurare.
Tutto nasce da un disegno legge presentato alla Camera il 5 dicembre 2008, primo firmatario on. Roberto Rosso (Pdl, nella foto a sinistra) che riguarda la 'nuova disciplina del commercio interno del riso”, che, come si legge dalle note, si era «reso necessario per rispondere alle pressanti esigenze della filiera interessata all'aggiornamento dei criteri di riconoscimento, conseguenti alle forme di etichettatura delle molteplici varietà di riso coltivate in Italia». Una proposta che in questi giorni è in sede di discussione per l'approvazione in Commissione.
E fino a questo punto potremmo essere tutti molto soddisfatti, il fare chiarezza sui criteri di riconoscimento delle varietà e sulle conseguenti forme di etichettatura del prodotto, conoscere anche se la materia prima è di origine italiana è quanto il settore auspicava da anni. Da un sondaggio, riportato sul sito del ministro Luca Zaia (nella foto a destra), si deduce che il 75% degli italiani sarebbe disposto a spendere di più per acquistare prodotti alimentari italiani e conoscere anche il nome del produttore.
Di riso in Italia se ne coltivano circa 150 varietà, il consumatore ne conosce meno di una decina che sono poi quelle storiche: Arborio, Carnaroli, Vialone nano, Roma, Maratelli. Sulle confezioni di riso normalmente in commercio si trova indicata la categoria di appartenenza (fino, semifino) e l'indicazione della varietà, le marche commerciali, cioè quelle che fanno capo all'industria, non riportano mai la provenienza, mentre gli artigiani del riso indicano anche la zona ed il lotto di produzione.
Prendiamo per esempio il Carnaroli (nella foto sotto a destra), la varietà più nota sul mercato. Esiste un decreto ministeriale (DM 30/1/2007 pubblicato sulla GU 15/3/2007) che permette alla varietà Karnak (nella foto a sinistra) di essere etichettata Carnaroli, perchè secondo l'Ente nazionale risi, non esiste differenza tra Carnaroli e Karnak. Il Karnak è una varietà ottenuta per recente mutazione genetica del Carnaroli; in campo é di più facile coltivazione, con una resa per ettaro più elevata, quindi meno costosa da produrre, stesse dimensioni del chicco. Ma è alla cottura che si vede subito la differenza: uno si 'squaglia” e l'altro rimane perfettamente al dente. Quando entrerà in vigore la nuova legge, il Karnak potrà essere etichettato Carnaroli e questa metodologia vale anche per altre varietà.
Non si tratta di poca cosa, perchè se estendiamo il ragionamento alla filiera, l'agricoltore non acquisterà più la semente del Carnaroli, ma quella del Karnak e l'Ente certificatore (Ense) sull'etichetta resa obbligatoria da una normativa C.E. cosa andrà a garantire? Va bene l'evoluzione varietale, ma va tutelato chi si sforza di conservare la purezza varietale e che non vuole ingannare il consumatore.
Profonda amarezza da parte di Piero Vercellone (nella foto a sinistra), presidente del Consorzio di tutela e valorizzazione varietà tipiche di riso italiano con sede a Vercelli. «I consorziati seguono un disciplinare di produzione che rispetta normative comunitarie e garantisce al consumatore l'esatta rispondenza tra varietà scritta in etichetta ed il contenuto. Nonostante tutta questa attenzione non siamo riusciti ad ottenere un riconoscimento comunitario del prodotto e da domani i nostri sforzi, anche economici, andranno vanificati».
Delusione espressa anche da Guido Sodano (nella foto a destra), direttore di Saiagricola, che afferma: «è come se sull'etichetta di un vino ottenuto con uva da tavola a bacca nera, perché l'acino è simile biometricamente a quella del Nebbiolo, venisse scritto Barolo».
Quanto detto esclude i risi che hanno ottenuto i riconoscimenti comunitari (Dop Baraggia, Igp Vialone nano veronese, Igp riso del Delta del Po), che sono pochi ettari (circa 10mila) rispetto all'intera superficie nazionale coltivata a riso di circa 235mila ettari. Questo perché nella legislazione Dop/Igp è espressamente previsto che ci sia rispondenza tra varietà risone e varietà della confezione.
Quanto sopra è frutto della collaborazione del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali e del parere unanime dei rappresentanti della filiera. C'è veramente da chiedersi: ma i rappresentanti della filiera hanno veramente sentito il parere degli agricoltori? Oppure abbiamo raccolto solo noi il malcontento? E cosa conta quanto hanno detto le varie categorie di artigiani del settore?