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Tassa che divide i cibi in buoni e cattivi Inran: Confusionaria e regressiva

Il nutrizionista Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca e responsabile dell'ufficio comunicazione Inran, non è d'accordo con la tassa sul junk food: «Una tassa discriminatoria potrebbe aumentare la confusione, oltre ad essere regressiva. Non è corretto classificare gli alimenti in buoni e cattivi»

 
18 gennaio 2012 | 10:28

Tassa che divide i cibi in buoni e cattivi Inran: Confusionaria e regressiva

Il nutrizionista Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca e responsabile dell'ufficio comunicazione Inran, non è d'accordo con la tassa sul junk food: «Una tassa discriminatoria potrebbe aumentare la confusione, oltre ad essere regressiva. Non è corretto classificare gli alimenti in buoni e cattivi»

18 gennaio 2012 | 10:28
 

La ipotizzata tassa su bevande alcoliche e i cosiddetti junk food anche in Italia (la tassazione è già stata applicata in paesi come Francia e Danimarca al fine di portare più liquidi nelle casse dello stato e al contempo scoraggiare il consumo di cibi eccessivamente ricchi di zuccheri e grassi) continua a suscitare interesse. A cominciare dal nutrizionista Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca e Responsabile dell'ufficio comunicazione Inran (Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione), che guarda all'ipotesi di tassazione senza alcun entusiasmo.

«Non entro nel merito politico-economico di una tassazione del cibo perché esula dalle mie competenze - dice Ghiselli - ma non si faccia in nome di un miglioramento dell'alimentazione degli italiani perché non ha senso. Sono sempre scarse le risorse che abbiamo a disposizione per la prevenzione e la corretta educazione alimentare, ma una tassa discriminatoria potrebbe aumentare la confusione, oltre ad essere regressiva. Non è corretto infatti classificare gli alimenti in buoni e cattivi, cibi sì e cibi no, ed è cattiva educazione alimentare. Come facciamo inoltre a definire il junk food? Alimenti troppo ricchi di grasso? Di calorie? Di zucchero? Di sale? Allora è junk food tanta parte del patrimonio alimentare italiano, dall'olio di oliva, al parmigiano, al prosciutto crudo. Terzo ma non ultimo: il consumo di prodotti comunemente considerati junk food, come merendine e bevande carbonate, rappresenta oggi una piccola parte dell'apporto calorico della popolazione italiana, ma si vorrebbero additare come responsabili dell'eccedenza ponderale».

Intenzioni lodevoli, dunque, ma totalmente sbagliata la strategia, secondo Ghiselli: «Dobbiamo invece educare il consumatore ad adeguare la propria alimentazione al proprio fabbisogno energetico, facendo discriminazione tra sedentarietà e attività fisica, non fra alimenti buoni e alimenti cattivi, cosa che inevitabilmente distoglierebbe l'attenzione dallo stile di vita».

Se la parola passa al mondo dell'industria, la reazione, come è logico, è ancora più radicale. Filippo Ferrua Magliani, presidente di Federalimentare, l'associazione che rappresenta le tutte le industrie produttrici del food&drink del nostro Paese, rifiuta l'ipotesi di tassa di scopo destinata a compensare alcune misure di rimodulazione della spesa sanitaria di competenza regionale per due diverse ragioni.

La prima, di principio: «è un'ipotesi - sottolinea in una nota - che non ho difficoltà a definire malaugurata perché ritengo - a nome dell'industria alimentare del Paese - che la tutela sanitaria dei nostri cittadini non si persegue con le tasse ma con l'educazione alimentare. Non esistono cibi cattivi di per sé: occorre adottare corrette diete e modalità e frequenze di consumo».

La seconda ragione è invece relativa alla sostanza e agli effetti della tassa ipotizzata: «Esiste una vasta letteratura scientifica che testimonia l'inefficacia di politiche sanitarie rivolte a penalizzare alcuni consumi alimentari ritenuti, impropriamente, come testimoniano molti esperti, dannosi. Oltre alla distorsione di concorrenza e al rinforzo delle spinte recessive, purtroppo già operanti nel nostro Paese, il risultato sarebbe paradossale. I consumatori, costretti a salvare i cosiddetti consumi anaelastici - quelli dei quali, come la benzina, non si può fare a meno - di fronte a un aumento dei prezzi di quelli elastici, dirotterebbero le proprie scelte verso prodotti analoghi, più economici e di peggiore qualità, intaccando in questo modo non solo il potere d'acquisto ma anche la qualità della dieta».


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