Dalla politica ci sarebbe davvero poco da aspettarsi in questo periodo. A destra come a sinistra, senza dimenticare i 5 stelle, è tutto un volar di stracci in vista delle elezioni. Il timore è che di tempo da dedicare a risolvere questioni importanti ne resti davvero poco. Con un ottimismo non di maniera, ci ostiniamo però a pensare che qualcosa si possa e si debba fare, quanto meno per sostenere quei timidi segnali di ripresa che in un po’ tutto il Paese si cominciano ad intravedere.
Fra le questioni centrali da risolvere per il nostro settore c’è ad esempio la definizione della figura professionale del cuoco (e del pasticcere o del pizzaiolo). Salute e benessere, promozione di prodotti e territori, accoglienza e turismo, sono tutti aspetti centrali legati ad un lavoro che non può più essere lasciato a percorsi formativi a volte vecchi o carenti di risorse e strutture (è il caso di alcuni istituti alberghieri). O, peggio, lasciati all’improvvisazione e al “fai da te”. Un Paese che come il nostro dichiara ogni tre per due che vuole puntare sull’enogastronomia come nuovo fattore di uno sviluppo virtuoso, non può non mettere mano con decisione ad una riforma del settore per garantire i cittadini rispetto a ciò che mangiano nel fuori casa.
Senza questo intervento è inutile che i ministri delle Politiche agricole o dei Beni culturali annuncino programmi per dedicare alla Cucina le iniziative del turismo del 2018. Sembrerebbe solo una presa in giro o un incentivo a nuove forme di improvvisazione. Dobbiamo tutelare e garantire un sistema che, dopo avere già oltre 300mila locali in cui si somministra cibo (a volte senza i requisiti minimi di
sicurezza igienica), non può subire nuovi degradi. E non può essere certo l’enfasi sugli
stellati a salvare la ristorazione. Anche perché fra poco basterà magari
sottoscrivere una nuova assicurazione “social” per offrire, oltre a una copertura di responsabilità civile sull’immobile, una forma di tutela per gli inconvenienti del cibo. In tal modo sarà aperta la porta agli
home restaurant con tanto di
loro “cuochi”. Del resto di figure improbabili ne vengono già sfornate a iosa da scuole o accademie che, in 6 lezioni teoriche e uno scampolo di ore di lavoro da lavapiatti in stage, rilasciano assurdi certificati di cuoco professionista.
È tempo che venga discusso e approvato il
progetto presentato dalla Fic (Federazione italiana cuochi) per definire la
figura professionale del Cuoco. E magari anche quelli (idealmente collegati) presentati per maitre, sommelier e barman. Il nostro sistema dell’accoglienza ne ha assolutamente bisogno.
La confusione che si è creata per questo vuoto normativo è almeno pari a quella nata nel mondo della comunicazione, dove sono saltati i paletti di confine fra l’informazione (affidata per legge a chi aveva un’abilitazione riconosciuta da un esame di Stato, i giornalisti) e la pubblicità.
Blogger e influencer (questi ultimi per loro dichiarazione prezzolati) sono nuovi soggetti che sono emersi sul mercato, ma per loro
non ci sono né regole, né deontologia. Magari qualcuno può essere esperto. E può anche scrivere meglio di un giornalista. Ma in questo far west è come se il sottoscritto sapesse cucinare meglio di un cuoco. Questo non farebbe di me un professionista della Cucina e non dovrei poter aprire un ristorante perché non offrirei garanzie certificate di sicurezza.
Fissiamo regole e chiariamo chi fa chi e chi fa che cosa. Un conto è pubblicare ricette o fare analisi di prodotti, e un altro è scrivere notizie per fare cronaca. Una volta che lo si sa, il cittadino-lettore-consumatore potrà regolarsi come meglio crede. Ma basta con chi vuole giocare con più casacche e più ruoli. Saper disegnare un bel progetto, non garantisce che la mano sia quella di un architetto che risponde di quello che poi verrà edificato.