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Dagli italiani di Hong Kong un esempio Il ristorante diventa azienda da business

di Alberto Lupini
direttore
 
09 novembre 2010 | 16:22

Dagli italiani di Hong Kong un esempio Il ristorante diventa azienda da business

di Alberto Lupini
direttore
09 novembre 2010 | 16:22
 

Trentaseimila euro di incasso in una giornata per un centinaio di coperti. Pochi ristoratori italiani potrebbero annunciare con soddisfazione simili risultati. A parte gli aspetti fiscali, in Italia è quasi impossibile immaginare un tale livello di ricavi che, quando va bene, risulta 'spalmato” su una settimana di lavoro. Eppure questo 'cassetto”, anche se non è la media, non è difficile da raggiungere in molti ristoranti nel mondo.

Nello specifico è successo la scorsa settimana all'Otto e mezzo di Umberto Bombana ad Hong Kong, in occasione dell'Italian Cuisine world summit organizzato dal Gvci, il Gruppo virtuale cuochi italiani. Ma, e questo è quello che conta, l'Otto e mezzo non è l'unico ristorante italiano che va bene nella metropoli asiatica. Di fatto è la condizione di tutti i locali e su di essa vale la pena fare qualche riflessione, perché alla base c'è un modello organizzativo di ristorante che forse fra breve potrebbe essere valido anche per l'Italia.

Al di là delle numerose occasioni di promozione della Cucina italiana e dei nostri prodotti, nonché dell'aggiornamento e del confronto fra i cuochi tricolori che lavorano in Italia o sono sparsi per il mondo, l'incontro del Gvci di Hong Kong ha offerto l'occasione ai molti ristoratori italiani convenuti lì (la gran parte tramite il Consorzio Cuochi di Lombardia o le Stelle del Piemonte) di fare qualche riflessione su quello che può essere il modello vincente del futuro.

Tolti i locali che oggi lavorano per grandi griffe (e che in alcuni casi sono in crisi come il Gold di Milano), o quelli all'interno dei grandi alberghi di lusso, il resto della ristorazione in Italia è oggi a carattere familiare. Un modello che ne ha costituito (come per la maggior parte delle piccole imprese italiane) un punto di forza per la possibilità di garantire flessibilità nei momenti di congiuntura negativa, ma che oggi mostra la corda là dove non c'è stata la capacità di puntare su scelte strategiche come la qualità dei prodotti e il radicamento sul territorio.

Ma anche questi paletti potrebbero non essere più sufficienti, tanto che anche in Italia comincia ad affiorare l'idea che la ristorazione debba dotarsi di strumenti di gestione più efficaci ed evoluti. Giusto ciò che l'esempio dei locali italiani di Hong Kong offre. Nella stragrande maggioranza dei casi si è infatti in presenza di aziende che pianificano menu e strategie di promozione in cui la cucina (scontato che sia di qualità, condizione essenziale) diventa un fattore gestionale per il raggiungimento di obiettivi di bilancio. Al punto che quasi tutti i locali fanno capo a società in cui il cuoco-manager è socio, per lo più in minoranza, di gruppi finanziari che hanno investito in queste attività per ottenere dei margini di reddito.

Qualcuno potrà forse inorridire davanti a simili prospettive, ma questa è la realtà con cui si dovrà fare i conti e che per molti versi permetterà alla ristorazione seria di distinguersi rispetto ai troppi operatori del fuori casa. E lo dimostra il fatto che, nonostante la crisi che ha investito il settore, nelle scorse settimane ci siano state novità interessanti proprio a livello di investimento di 'non cuochi” in ristoranti o aziende alimentari importanti, pensiamo ai casi di Alajmo e Peck.

Alberto Lupini
alberto.lupini@italiaatavola.net



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