Da "1000 artisti a Palazzo. Vetrina dell'arte contemporanea", a cura di Luciano Caramel, Editoriale Giorgio Mondadori, 2009.
"1000 artisti a Palazzo". Titolo riduttivo, nei numeri, per la manifestazione di Cesano Maderno, alle porte di Milano, ideata e creata come una sorta di "autoritratto" dal pluridimensionale architetto-pittore-collezionista-animatore, promoter artistico, e non solo, Fiorenzo Barindelli. L'evento (definizione appropriata, non trattandosi di una mostra di sole pitture e sculture, ma di una rassegna che coinvolge anche musicisti, attori e performer) ha infatti in realtà richiamato oltre 1 200 autori, non includendo i molti che, scaduti i tempi imposti dall'organizzazione, come si può ben capire assai complessa, sono rimasti in... lista d'attesa. Tanto che la rassegna si è dovuta allargare ad altri luoghi della città, debordando dal Palazzo Arese Borromeo, centro dell'esposizione ed esso stesso, con i suoi affreschi e lo scenografico giardino dialogante con l'architettura, un modello, secentesco, di "arte totale". Che è attualmente sede della Facoltà di Filosofia dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, per l'occasione significativamente interagente con questa "grande festa dell'arte e del colore", come con efficacia la definisce il sottotitolo. Una vera e propria "vetrina dell'arte", che per la varietà e differenza delle realtà presentate pone una serie di interrogativi, che costituiscono il legame primo che dà al tutto unità e significato.
Cos'è, innanzi tutto, l'arte che qui viene messa "in vetrina"? La domanda, che la medesima pluralità di offerte sollecita, non può essere soddisfatta da risposte riduttivamente "oggettive", merceologiche e categoriali, anche se in effetti si tratta di "prodotti", seppur assai particolari. Sempre per la varietà e differenza, anche sostanziale, della proposta espositiva, l'interrogativo esclude pure soluzioni solo deduttive, presupponenti definizioni a priori teoretiche, o anche solo di poetica, inevitabilmente unilaterali, dalle quali derivare i criteri di giudizio. Detto in parole più semplici, questa mostra particolarissima, che raccoglie lavori di una folla di aderenti approdati autonomamente attraverso un capillare e non direzionato "passa parola", richiede che, almeno in un primo momento, non ci si domandi tout court che cos'è l'arte, ma perché e in che senso quanto si vede "in vetrina" viene chiamato arte, da chi le opere ha realizzato e da chi, pur con impliciti distinguo, le ha esposte. Solo così si potrà entrare nello spirito e nel senso della manifestazione, entro la "festa", di per sé carica di valori, fruibili a più e diversi livelli, in base anche alle inclinazioni e alla preparazione specifica del pubblico, assai influente nel rapporto, per i più spesso in salita, con l'arte d'oggi, anche per la sua diffusa auto-referenzialità, ossia per il suo porsi obiettivi e regole spesso interni, autoriflessivi, fino a disorientare i non addetti ai lavori.
Senza abdicare alla ricerca - però induttiva, partendo dalla realtà di quel che nel variare delle congiunture storico-culturali "si dice arte" - di un'idea d'artisticità non solo contingente, che spieghi perché si siano chiamate e si chiamino arte certe cose tra loro diverse e non invece altre, va tuttavia accolta la conclusione di buona parte dell'estetica filosofica moderna, per la quale in sostanza "l'arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte", come lapidariamente scrisse, ad incipit di un suo trattato, il grande estetologo Dino Formaggio. Che precisa, ad evitare equivoci, che tale asserzione "non è, come qualcuno potrebbe credere, una semplice battuta d'entrata, ma piuttosto, forse, l'unica definizione accettabile e verificabile del concetto di arte", anche proprio perché "possiede, anzitutto, una salutare validità negativa: quella di impedire che si vada alla ricerca di una definizione 'reale', di essenza o di qualche essere nascosto, come per secoli tutte le poetiche hanno fatto, sostenendo che l'arte [...] è questo o che è quest'altro, sempre nell'illusione veramente donchisciottesca, da parte di ciascuna posizione, di avere essa, e non le altre, infilzato, con la lancia acuminata del proprio sistema concettuale, l'universalità stessa dell'arte, tutta l'arte e per sempre". Muovere quindi da quanto storicamente è stato detto, si dice, e si dirà arte, per cogliere la varietà e ricchezza della "guizzante vita del significato dell'arte, di ciò", appunto, "che gli uomini nella storia hanno chiamato e chiamano arte"; non escludendo tuttavia, va ribadito, una possibile, "generale idea di artisticità, purché si sappia che [...] essa non esiste (e non è pensabile] se non come qualcosa che si fa insieme al farsi dell'arte".
Sono riflessioni, sviluppate dall'estetica contemporanea, gravide di problemi su cui non è qui il caso di soffermarsi oltre, salvo aggiungere - per ribadire, ancora appoggiandoci a Formaggio, la complessità della questione, ad un livello filosofico, ma anche storico - che non è poi detto che "tutto ciò che tutti gli uomini, in tutta la loro storia, hanno chiamato arte", o viceversa, sia in seguito, anche oggi, da noi che viviamo la nostra contemporaneità, riconosciuto o meno come arte. Così molti manufatti credibilmente eseguiti dagli uomini nella preistoria e nella protostoria con finalità solo utilitarie, apotropaiche, religiose, o altro, e certo non secondo i nostri parametri di artisticità, sono invece da noi valutati e vissuti come opere d'arte, con criteri appunto non coincidenti con quelli di quei remoti autori. Ed è un esempio particolarmente calzante, dato che coinvolge il discrimine tra artisticità e non artisticità abitualmente individuato, anche nei gradi alti dell'estetica, proprio nell'"inutilità" dell'arte e per converso nella totale o prevalente "utilità" di quanto non è riconoscibile come artistico.
Coerenti con le speculazioni filosofiche sono gli svolgimenti dell'arte, che dalle avanguardie storiche protonovecentesche in avanti hanno rimesso in discussione convenzioni e statuti linguistici secolari. Dapprima, nel cubismo, nel futurismo e nel dadaismo, e più tardi nel surrealismo, con la radicalità caratterizzante l'ideologia avanguardistica, militaristicamente rivolta alla negazione, alla distruzione e al totale, definitivo superamento del passato. Poi, negli anni del secondo dopoguerra, con la rottura dell'informale, e dell'action painting, e dagli anni sessanta nella ripresa "altra" da un canto dell'oggettività, nelle correnti neocostruttiviste, programmate, "op" e di strutturazione analitica di volumi primari, e dall'altro dell'oggettualità e nella rifondazione-riproposizione del rapporto con la realtà, ora attraverso l'immagine, dei mass media in particolare, della pop Art. Per giungere, tra anni Sessanta e Settanta, alla maturazione dei semi posti fin dagli anni dieci da Marcel Duchamp, soprattutto, e in genere dai dadaisti, ma anche, negli avanzati Venti dal Magritte, teorico e pittore, de Les mot set les images. Questi direttamente ripreso nelle investigazioni analitiche, rigorosamente, in specie all'inizio, autoriflessive di Joseph Kosuth ("La natura dell'arte per me era divenuta l'interrogazione sulla natura dell'arte e, così facendo, un riflettere sul contesto del farsi del significato", afferma l'artista in un'intervista del marzo 20 05), che fu tra i pionieri dell'arte concettuale, debitrice delle intuizioni e proposizioni, preminentemente teoriche, trasmesse da Duchamp attraverso i ready made, incarnanti un interrogativo circolare, senza risposta e possibilità di ritorno, o avanzamento, che coinvolgeva l'identità medesima dell'arte, spogliata di uno dei suoi attributi da sempre costitutivi, la formatività. Per cui il fare arte venne identificato col riflettere sull'arte, sulla sua identità appunto, anche senza alcuna protesi di realizzazione manuale. Di qui tutto quanto si è verificato in seguito, lungo direttrici differenti e talora anche opposte, ma frutto di una situazione effettivamente inedita, che è poi quella che viviamo ed è riflessa in questa mostra gioiosa e carica di stimoli pluridirezionati, frutto anche dello sviluppo e della maturazione di altri fermenti che hanno le radici nei decenni precedenti: dal recupero della corporeità (la body art), del medium fotografico e di quello filmico alla transmedialità e alla nuova concezione del tempo e dello spazio prodotte dalla rivoluzione elettronica.
C'è però un altro nodo problematico che innerva i lavori dei mille e più autori che hanno invaso palazzi, vie e piazze di Cesano Maderno, quello del confine tra artisticità e creatività, interagenti e non sempre individuabili nelle loro peculiarità ma nella sostanza non confondibili. Creatività è infatti la capacità, potenzialmente presente in ogni individuo, seppure in gradi diversi, anche in rapporto all'educazione e gli stimoli ambientali, di cogliere, elaborare e associare autonomamente, con intuizione inventiva e fantasia, i rapporti tra i dati della realtà o le idee, con risultati innovativi e funzionalmente utili e produttivi. Diversamente studiata e valutata in psicologia, in neuropsicologia e nella epistemologia, anche nel suo apporto ai processi logico-cognitivi, essa è applicabile a campi diversi, teorici e pratici, compreso quello dell'arte, nel quale può assumere un ruolo rilevante, anche come disposizione di base propizia al suo esercizio. Che tuttavia presuppone e comporta una progettualità e una processualità intenzionalmente meno "aperta" di quella della creatività in quanto tale propria, pur negli squilibri tra creatività e arte causati dal divenire dell'idea e dei modi di realizzazione dell'arte sopra richiamati. Scompensi macroscopicamente evidenti nel ricco campionario offerto dalla "vetrina" di Cesano Moderno, che certo, e inevitabilmente, per i criteri di "non scelta" adottati, registra casi di scoperta improvvisazione, non si sa se casuale o voluta, e di inadeguatezza tecnica. Ma è pur esso un dato che congruamente partecipa dell'iconosfera artistico-creativa di questi primi anni del terzo millennio che la "vetrina dell'arte" registra a tutto campo, aperta com'è alla presenza internazionale di artisti, creativiartisti, artisti-creativi, creativi, diversi per scelte e indirizzi, e anche per spessore culturale, qualità e professionalità, di 40 nazioni, europee, americane, asiatiche, estremo-orientali, oceaniche, africane e di generazioni che coprono quasi l'intero Novecento, dai nati negli anni Venti (gli italiani Attilio Allievi, Mario de Biasi, Marcello Ercole, Ernesto Treccani, Franco Vasconi, Federico Tanzi) ai giovani e giovanissimi delle leve più recenti (Chiara Silva e Tiziano Codoro del 1983, Natacha Santiago del 1985, Thomas Berrà del 1986, Norfarahan Zainudin del 1988 e Serena Ferrari, neppure ventenne, del 1989). Uno spaccato di tutto riguardo, che senza presunzioni di sorta contribuisce a dare il polso dell'arte attuale e degli interrogativi che la animano e determinano. Nel clima gioioso della festa e del gioco, tutt'altro che estranei, pur essi, alle problematiche dell'arte e dei suoi dintorni.
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