Cuochi professionisti in 6 giorni? Basta con questa vergogna
Ma davvero la professione di cuoco o pasticcere è così svilita che chiunque oggi la può affrontare senza controlli e, soprattutto, senza preparazione? La verità è che un avvocato annoiato, invece che un metalmeccanico o uno straniero disoccupato, oggi possono aprire un bar, un ristorante o inventarsi personal chef. Che lo sappiano fare è però un’altra cosa. E nei varchi della legislazione vergognosa che regola questo comparto c’è chi specula sulla “moda” di cimentarsi con le padelle (che oggi è una sorta di status symbol). Al punto che sono nate pseudo “scuole” che agli autodidatti rilasciano un titolo, ovviamente senza valore, di “cuoco professionista” dopo una frequenza sui banchi di 6 giorni (sì, solo 6 giorni) e uno stage di 300 ore.
Non stiamo parlando di corsi per privati che, in assenza di mamme e nonne disponibili, vogliono imparare a cucinare o migliorarsi. Di quelli l’Italia è piena e in molti casi sono utili. Parliamo della “formazione” di persone che poi dovrebbero occuparsi della nostra salute, della valorizzazione delle tradizioni e dei prodotti tipici. In pratica di quel che da tempo definiamo come uno dei perni dello stile di vita italiano. Si tratta di scorciatoie vergognose che non portano da nessuna parte ma che promuovono patentini tarocchi utilizzando anche le immagini di grandi cuochi stellati che se ne guarderebbero bene dal mettere piede in quelle strutture.
Uno dei più preparati formatori del settore, Raffaele Trovato, che dirige il prestigioso Ifse Culinary Institute di Piobesi Torinese ci invita a dire BASTA a queste iniziative che illudono molti italiani che vorrebbero fare il cuoco, professione oggi ambitissima. Non possiamo non associarci a questo appello. Ma non è sufficiente. Bisogna andare a fondo e fare saltare un sistema malato che non aiuta nessuno, salvo chi ci guadagna a gestire questi finti corsi. Il che sarebbe legittimo, basta non usare il termine “professionista”...
Oggi non basta la formazione di 5 anni degli istituti alberghieri per garantire un minimo di professionalità: come si può pensare che possano essere sufficienti 6 giorni o 50 ore a scuola? È gravissimo che lo Stato italiano permetta di usare in questi casi la parola professionista associata a quella di cuoco. Ma quel che è peggio è che c’è persino chi a livello regionale accredita iniziative di questo tipo. Per non parlare di un’associazione professionale di categoria che ci mette tanto di marchio e patrocinio, o scrive nero su bianco che è pronta ad accogliere i patentati di queste scuole a fianco dei suoi iscritti (professionisti veri che lavorano da 20 o 30 anni in cucina). Cosa non si farebbe per aumentare le scarse tessere in questo Paese...
Eppure le soluzioni per potere garantire la professionalità di un cuoco ci sarebbero. Da un lato si deve ottenere il riconoscimento legale di questa professione (cuoco, pasticcere o pizzaiolo che sia), e qui va riconosciuto il nuovo impulso che, sotto la guida nel neopresidente Rocco Pozzulo, la Federazione italiana cuochi (Fic) sta dando a questo progetto (con tanto di regole per la formazione). Un’iniziativa a cui si affianca quella di Lino Stoppani, presidente della Fipe, che chiede di ripristinare un minimo di caratteristiche (fra cui la preparazione) per chi gestisce pubblici esercizi. Dall’altro lato va invece rivisto a fondo il sistema scolastico di base e va attuato un coordinamento fra i pochi istituti che possono fare sul serio alta formazione (Alma, Boscolo Etoile, Cast Alimenti, Ifse e Tu Chef in primis). A quel punto di spazio per tarocchi o apprendisti stregoni non ce ne sarebbe più.
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Alberto Lupini