La pandemia è flagello planetario. Ne siamo colpiti noi in Italia e ne sono colpite le popolazioni di quasi tutti i Paesi del mondo. Ne patiscono disagi gravi i ristoratori italiani ed altrettanto gravi sono i disagi patiti dai ristoratori degli altri Paesi. Generalizzando, e sapendo perciò di incorrere in qualche inesattezza, ma sapendo altresì di affermare fondamentalmente il vero, qui in Italia il comune sentire espresso dai ristoratori possiamo così azzardarci a sintetizzarlo:
a) dateci i ristori
b) fateci riaprire al più presto possibile
Stop alle lamentele, serve innovarsi
Tante proteste, ma manca un confronto diretto con i cuochiLe voci o si esprimono attraverso
claim isolati oppure attraverso dichiarazioni delle autorevoli associazioni di categoria. Carente, a che si sappia, un dibattito trasversale che nel vedere protagonisti i
cuochi, vada oltre la voce solista ed anche oltre i verbosi comunicati delle
associazioni.
Gli esiti di un dibattito online dal titolo suggestivamente significativo “
Let’s start (not restart)” “Cominciamo (non ricominciamo)” possono forse generare spunti di riflessione tra i nostri ristoratori. A cominciare proprio dal titolo dato al dibattito. Fondamentale in questo caso l’
approccio: si comincia, piuttosto che si ricomincia. Però, un momento: si comincia e non si ricomincia non significa resettare il sapere accumulato (ci mancherebbe altro). Di questo sapere si fa
tesoro. Però, eccoci al distinguo importante, è un “
sapere trampolino” non è un “sapere gabbia”. Il sapere gabbia è l’esperienza vissuta come ancoraggio stabile che induce all’
immobilità. Il sapere trampolino è l’
esperienza vissuta, appunto, come trampolino mediante il quale lanciarsi verso un modello di ristorazione migliore e più sostenibile. Poniamo in evidenza tre esiti.
Primo esitoPartiamo da un dato statistico la cui lettura derivata molto può illuminarci. Statistiche del traffico
aeroportuale negli aeroporti italiani.
- Gennaio ’21 su Gennaio ’20 = -87% circa il traffico passeggeri
- Gennaio ’21 su Gennaio ’20 = -8% circa i movimenti cargo (le merci).
Quindi, dove un
crollo e dove un
calo. Le
merci, sebbene con un calo significativo dell’8% continuano a viaggiare. Chi praticamente non viaggia più è il
turista, atteso che quel 13% di viaggiatori che ha impedito di porre a 100 la differenza di traffico tra gennaio ’21 e gennaio ’20 è costituita da viaggi di
lavoro o comunque irrimandabili.
Cosa accade, a fronte di questo fenomeno, nei ristoranti ?Accade che non sono frequentati dal forestiero e quindi è molto opportuno, pena aggravamento ulteriore dei
disagi, che vengano frequentati dalle persone del posto: il
target di vicinato che si riprende il primato sul target forestiero. E può un ristorante essere fortemente e continuativamente attrattivo per la
clientela locale se nel suo offering ci sono le “specialità locali” acchiappaturisti d’antan?
Evidentemente no. Che significa, allora? Mica vorrà significare che dopo tanti elogi
autoreferenziali sulla magnificenza della
cucina del territorio, si abiura e si fanno cose diverse? No. Si resta nella cucina del territorio ma non è detto che sia “il mio territorio”, il territorio dello
chef. In felice successione, ora un territorio, e dopo un altro, e dopo un altro ancora. Concetto che la lingua
inglese esprime meglio quando consente di usare
guest (l’ospitato) e
host (l’ospitante). Cucina di incontro tra il proprio territorio ed il territorio del collega (forse anche amico) chef di territorio altro.
Le contaminazioni virtuose, gli incontri in cucina, nuovi
abbinamenti, forse anche differenti stili di servizio in sala. In questo scenario, ogni
chef che si sente parte della community, talvolta è guest e talvolta è host.
Secondo esitoVolentieri citiamo due grandi cuochi italiani:
Gennaro Esposito (Personaggio dell’Anno del sondaggio di Italia a Tavola) e
Massimo Bottura. Si parlava del famigerato
km zero e (citazioni non testuali) Gennaro Esposito disse: «Qui non si tratta di fare km zero, bensì di fare frigorifero zero». Massimo Bottura disse: «L’unico km zero che funziona è quello tra il nostro palato e il nostro cervello».
A distanza di anni è ancor più vero quanto seppero affermare i due succitati chef. Pertanto, una cucina con menu funzione delle
stagioni. Però... per davvero! Facciamo alcuni casi.
Ristorante “specialità di mare”. Detta così, le specialità del mare sono: mare calmo, mare mosso, mare agitato, mare per i surfisti, etc... Quindi, dobbiamo dedurne che non di specialità di mare trattasi bensì di “
pescato nel nostro mare”. Allora se è così (ma così è di rado, in genere è acquacoltura o pescato oceanico congelato) si scopre che i pesci (di conseguenza “il pescato”) vivono una loro stagionalità. Nel caso di specie, siamo a marzo, e allora le alici, i calamari, il San Pietro, lo sgombro, sono questi i principali
pesci marzolini. Quando un offering del ristorante con “specialità di mare” che contempli solo queste specie (e poche altre) e non le onnipresenti spigole e orate, per non parlare della frittura di pesce?
I
funghi. Adesso ci sono i prugnoli. Vi è coerenza di offering? E non parliamo di
cacciagione. E’ questa l’accezione nuova del troppo disinvolto “menu di stagione”. Lo si sa e lo si vuole raccontare al cliente? Conviene e piace renderlo consapevole di tutto ciò? E poi magari si scopre che ne sa più di noi e quindi sa fare benissimo le sue
valutazioni su come è stato trattato.
Terzo esitoUna cucina che sappia coniugare sapori che emozionano con il rispetto dei valori
ecologici: lavorare prodotti privi di pesticidi.
Tutto ciò in virtuosa coerenza con un’
agricoltura ed una produzione alimentare che puntano all’impatto zero sul clima entro il 2050, secondo un preciso modello di
sostenibilità economica. Sanno/vogliono i ristoratori indicare, ad esempio, la provenienza dei
formaggi e delle
carni? Ma quanti ristoratori conoscono il “from farm to fork” (F2F), “dalla fattoria alla tavola” e quanti intendono perseguire questo obiettivo inserito nel
Green Deal della Ue?
Probabilmente cosa si accinge ad essere il new deal della ristorazione comincia già ad essere più chiaro. Forse il vero
motore del “cominciare” nel dopo pandemia sta proprio nel sentirsi
community, nel sapere e volere fare squadra (all’interno) e nel volere condividere saperi ed azioni con gli stakeholders (all’esterno). Sbrigliare le redini,
dando spazio alla creatività propria e dei collaboratori. Rompere gabbie e schemi ed essere flessibili su
orari di apertura, servizi erogati, mansioni dei collaboratori, relazioni con i clienti, con i colleghi e con i fornitori. Essere propensi all’
innovazione e pertanto andare gioiosi e non
timorosi incontro al nuovo. Di neofilia non si muore, di neofobia sì! Soprattutto in questo momento di
flesso epocale.