Sorprende e non so se provoca anche amarezza, constatare che nessuno, o quasi, si è accorto che la scorsa settimana, in una Milano che coraggiosamente affronta la delicata Fase 2, erano passati 5 anni dalla data del 1 maggio 2015, quando si inaugurava l’EXPO 2015. Già, giusto cinque anni fa.
L'albero della vita, simbolo di Expo 2015, cosa può rappresentare oggi ?
Ad EXPO in corso e soprattutto ad EXPO terminato, e per i successivi quattro anni, Milano ha vissuto stagioni brillanti, crescendo briosamente ed autorevolmente ponendosi tra le capitali europee e tra le più vivaci città del mondo.
In questo quadriennio si è data per irreversibile la lettura rovesciata della Piramide di Maslow:
dal cibo quale bisogno di base, al cibo quale piacere edonistico da porre al vertice della piramide.
L'edonismo del cibo
Ricordiamoci tutti bene quale era il claim di EXPO 2015: “nutrire il pianeta” ovvero soddisfare la domanda di cibo di 9 miliardi di esseri umani nel 2035 e di 10 miliardi di persone nel 2057. Di tutto si è però poi fatto in corso di Expo, e dopo.
La catastrofe pandemica Covid-19, che comporta (dati stimati) 3milioni di contagi e 200mila decessi nel mondo, ci ripropone ora alcune incognite sulla percorribilità del nobile obiettivo di “nutrire il pianeta”. Un Covid-19 che si estendesse nei Paesi più poveri del pianeta provocherebbe carestie tali da far diventare le vittime nell’ordine dei milioni.
Altro che i 4 Cavalieri dell’Apocalisse di cui Italia a Tavola ha parlato in questi giorni.
Basta vedere cosa sta già accadendo qui da noi, dove l’ostacolo alla circolazione delle persone, insieme alla condizione da “irregolari” dei lavoratori extracomunitari, mettono a repentaglio i raccolti. La perdurante chiusura dei ristoranti penalizza i prodotti freschi e quelli ad alto valore aggiunto, con la conseguente crisi di settori quali la pesca nazionale e le eccellenze agroalimentari in filiera corta. Il quadro non sarebbe completo senza considerare un altro aspetto della “sicurezza alimentare”. Anche approvvigionarsi dall’estero, di cui il nostro Paese ha oggettivamente bisogno, diviene problematico perché in ogni Stato le materie prime alimentari recuperano la valenza strategica che hanno sempre avuto durante i periodi bellici.
Il cibo come bene primario
Forse ci troveremo al cospetto di un “sovranismo alimentare”! La ristorazione che riapre, dovrà saper e voler agevolare l’uso di prodotti nazionali. Umilmente e faticosamente dobbiamo fare lo sforzo di “ri” rovesciare la Piramide di Maslow e di
riportare il cibo nella sua posizione naturale di bisogno di base.
Il cibo, lo sappiamo bene, ha anche una forte valenza identitaria, marca l’appartenenza a tribù alimentari e connota etnie (non a caso si parla di cucina etnica). La pandemia ci mette il suo anche nella reinterpretazione del concetto stesso di “cibo etnico” e di “cucina etnica”. La rinnovata consapevolezza dell’esistenza dei confini nazionali, le limitazioni alla circolazione delle persone dovute a motivi di salute pubblica, insieme al vistoso decremento dei flussi di turismo estero, favoriscono l’etnocentrismo, ovvero la preferenza accordata alle nostre produzioni agroalimentari.
Tra gli effetti indotti ci potrebbe essere l’auspicato ritorno alle filiere corte grazie alla sapiente complicità della tecnologia abilitante. Le nostre produzioni DOP e IGP, in assenza del circuito virtuoso turismo estero–ristorazione–export agroalimentare dovranno potenziare la loro comunicazione verso i consumatori del nostro Paese, concorrendo così ad irrobustire la suddetta valenza identitaria del cibo.
Frutto di questi due mesi di quarantena, eccoci a scoprire il valore nuovo ed originale del cibo: il valore virtuale. Ci si è avvicinati con salutare curiosità da neofiti per poi divenire fruitori abituali degli aperitivi condivisi sui social media, dei virtual tasting, delle cooking class in rete. Insomma, abbiamo cercato tutto quanto desse parvenza di convivialità. Gli acquisti nella GDO, non sfugge ciò agli osservatori attenti, stanno adeguandosi a queste nuove esigenze, a questi nuovi comportamenti.
A concludere diciamo quindi che la pandemia Covid-19 ingenera mutamenti di lungo periodo sulle tre modalità, che qui ribadiamo, di intendere il cibo:
- cibo come bisogno di base, la sicurezza di avercelo;
- cibo come fattore identitario che marca e stabilisce etnie;
- cibo in valenza virtuale per salvaguardare il bisogno/desiderio di convivialità tribale anche in rete. Tutto ciò, riflettiamo bene, è causa e poi sarà anche effetto, delle trasformazioni che il cibo vive nei suoi tre momenti fondamentali della produzione (come, dove, quando lo si produce), della distribuzione (quali canali: GDO; retail specializzato, e-commerce), del consumo (al “nuovo” ristorante, in casa, in rete).
Aggiungiamo un'altra valenza, quella che ci salverà se a metabolizzarla saremo in tanti: il cibo come cultura. Anche questo assunto entra nel novero degli ardimentosi quanto intriganti e piacevoli cimenti che il “nuovo ristoratore” nel suo “nuovo ristorante” potrà farci vivere, se lo vorrà.