La fallita sortita parlamentare per annacquare le già blande disposizioni comunitarie sull'etichettatura dell'olio sta creando molte curiosità fra i nostri lettori. Ne sono testimonianza le mail e le telefonate che sostanzialmente ci chiedono che cosa accadrà da luglio in poi e se la norma entrerà effettivamente in vigore. Non avendo capacità divinatorie è francamente difficile immaginare quali altre imboscate parlamentari, o semplicemente amministrative, potranno ostacolare l'avvio dell'operazione trasparenza sull'etichetta (ottenuta dal ministro Zaia, ma voluta inizialmente, va ricordato, dal suo predecessore De Castro). Al di là di questi imprevisti non è che la prospettiva che si profila sarà in ogni caso così entusiasmante come alcuni vorrebbero fare credere. Siamo in particolare curiosi di vedere se l'aver ottenuto di scrivere sulle bottiglie dell'extravergine italiano 'da olive coltivate in Italia e frante in Italia” sarà stata, come c'è il rischio che sia, un'altra vittoria di Pirro della olivicultura nostrana.
La lobby degli industriali spagnoli (che controlla di fatto la produzione di oltre i due terzi dell'olio del Mediterraneo, compresi grandi nomi italiani) è infatti riuscita a comprimere gran parte delle aspettative dei consumatori e dei piccoli produttori (soprattutto italiani) interessati alla qualità. Il regolamento comunitario (per ora approvato dalla Camera dei deputati in Italia ed in attesa del passaggio finale al Senato) lascia infatti ampi varchi alla libera interpretazione di cosa indicare in etichetta, in un pasticcio francamente eccessivo soprattutto per quanto riguarda le casistiche più comuni: la miscela di oli di provenienza diversa.
Fra i punti più controversi del regolamento si prescrive fra l'altro che la tipologia di olio (ad esempio extravergine) e l'indicazione delle zone di provenienza e/o produzione non vadano messe insieme, cioè di seguito una all'altra in etichetta, ma devono essere disgiunte. Un modo assolutamente truffaldino per eludere in qualche modo la trasparenza che dovrebbe essere invece l'asse portante di questa novità. A fare la differenza, stante i nuovi criteri più lassisti con cui si può definire secondo l'Unione europea olio extravergine anche un olio sottoposto a processi di rettifica molto spinti, resterebbe giusto la provenienza delle olive, ma questa non essendo associata alla prima indicazione rischia di passare in secondo piano.
Il risultato è già prevedibile e lo sintetizza
Gino Celletti (
nella foto), uno dei maggiori esperti italiani di olio: «A luglio, grazie al recente regolamento CE 182/09, una massaia pensionata con pochi soldi a disposizione troverà sullo scaffale dei supermercati varie offerte di olio. Restando in quello che sulla carta si può definire extravergine si passerà a quelli "misti" (a seguito cioè di miscela di oli di imprecisata provenienza) a partire da 1 euro a litro fino a quelli da 20 euro al litro o più. Magari li scarterà entrambi, ma è facile immaginare che comprerà quello vicino sullo scaffale, da 1,5 euro o 2,00 euro, convinta di avere fatto un affare».
Uno scenario quasi certo se si pensa che, per mettere fuori mercato i produttori italiani di qualità, le industrie spagnole quest'anno hanno deciso di imporre di fatto un prezzo di vendita dei loro oli proprio attorno ad 1,5 euro la bottiglia. Il che non corrisponde nemmeno al valore della bottiglia, dell'etichetta e del trasporto...
Tanto che l'Unione europea è dovuta correre ai ripari con aiuti all'ammasso privato per 110mila tonnellate di prodotto.
Ma a questo punto ci si può chiedere come si sia potuti arrivare a questi valori così bassi. La risposta è più che semplice: abbassando il livello della qualità che dovrebbe essere garantita. Anche in questo caso indicazioni precise ce le fornisce Gino Celletti. «Su iniziativa degli spagnoli, e con sostanziale silenzio italiano - dice - con la recente norma CE 640/08 sono stati raggruppati e non più valutati separamente - con punteggi finali negativi quindi ridotti - due 'difetti” che servivano a selezionare l'olio extravergine. Il 'riscaldo' (a seguito del quale le produzioni industriali puzzano di pipì di gatto) e la 'morchia” (il difetto dell'olio stoccato sul cui fondo si forma un deposito di fanghi e cellule che fermentando danno all'olio putrescine e cadaverine, in questo caso puzza di escrementi). L'unificarli è fra l'altro assurdo se si pensa che il primo difetto si manifesta all'inizio della filiera (è legato al metodo di raccolta delle olive), mentre il secondo incide invece sullo stoccaggio dell'olio già fatto. Le sensazioni chimico olfattorie che danno sono fra l'altro assolutamente diverse e derivano da molecole diverse…».
Altra novità di non poco conto è che, dopo avere ridotto il numero dei difetti, è stato anche spostato verso l'alto il valore della mediana del limite dei difetti complessivi (dal 2,5 al 3,5) superato il quale l'olio diventa 'lampante” (termine che secondo il regolamento francese significa 'non per uso umano”). Di fatto sono state rese assolutamente meno rigorose le soglie di sicurezza alimentare e quello che fino a ieri era un olio destinato ad essere bruciato, oggi può essere rettificato ed essere definito "olio d'oliva", previa una minima aggiunta di Vergine. A ciò siamo arrivati anche se, ricorda ancora Celletti, il «regolamento CE 2568/91 aveva previsto la figura dell'Assaggiatore che doveva fornire suggerimenti e consigli su come evitare questi difetti. Un ruolo di fatto annullato visto che con nuovo regolamento si stabilisce nei fatti che l'Assaggiatore non sa distinguere fra i difetti di 'Riscaldo” e 'Morchia”.
Che dire a questo punto? Le maglie si sono allargate troppo e della salute sembra che siano in pochi ad occuparsene realmente. Il problema di fondo è che non si può promuovere un alimento fondamentale per la nostra dieta come l'olio, imponendone un prezzo di 1,5 €/litro che apre la porta alla barbarie nell'alimentazione. Occorre una vera cultura della salute ed una valorizzazione degli oli di qualità, il cui consumo è fra l'altro estremamente ridotto in termini di quantità, pur garantendo risultati decisamente più elevati rispetto all'olio 'industriale”.
«L'olio - dice Gino Celletti - andrebbe venduto come si fa con la ginnastica e le SPA. Occorre insegnare a scuola che l'olio deve essere piccante, profumato e a volte anche amaro (un grandissimo pregio per il gusto e la salute). Così come avviene per il vino: non c'è solo la scelta fra bianco o rosso. Ovviamente l'olio va "venduto" anche a tavola, con il piacere dato dalle ricette italiane mediterranee, senza Textura, alginato di sodio, lecitine di soia, agar agar, siringhe, beker e matracci. Questa potrebbe sembrare un'altra storia e invece è la stessa: se siamo a questo punto di scarso valore dell'olio è per la mancanza di sapore nei cibi, che di per sé sono magari con additivi chimici e quando va bene sono accompagnati da olio rettificato, inodore, insapore e incolore che spinge inesorabilmente la clientela a trovare soddisfazione in altre forme ed espressioni della cucina, rinunciando alle sensazioni gusto-olfattive».
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