Santa Margherita gruppo vinicolo: Ancora più forti sul mercato italiano

L'amministratore delegato del gruppo vinicolo veneto traccia un bilancio della ripartenza dopo il lockdown tra un mercato interno da rafforzare e nuovi gusti dei consumatori da assecondare . La realtà veneta può contare su un fatturato che ha superato i 189 milioni di euro grazie alla vendita di 22,8 milioni di bottiglie

22 settembre 2020 | 08:30
di Alberto Lupini
Beniamino Garofalo è l’amministratore delegato di Santa Margherita gruppo vinicolo, realtà veneta storica che vanta 712 ettari - dei quali il 70% di proprietà - con un fatturato che ha superato i 189 milioni di euro grazie alla vendita di 22,8 milioni di bottiglie. Con la crisi causata dalla pandemia, anche il business di Santa Margherita ha dovuto adattarsi alle nuove abitudini dei consumatori e alle nuove tendenze dei mercati, ma l’asticella non si è abbassata. Con il Pinot Grigio punto fermo da sempre, il mercato italiano rafforzato e una varietà di offerta che cresce si guarda al futuro con positività.


Santa Margherita punta sul mercato italiano

Al di là del covid o delle politiche dei dazi alla Trump, cosa prevedi per il futuro dell’agroalimentare made in Italy nel breve medio periodo?
«È chiaro a tutti che stiamo vivendo un periodo eccezionale che ridisegnerà l’economia globale; il mondo pre-2020 non esiste più, almeno così come lo conoscevamo. Però dobbiamo anche considerare che dal cambiamento nascono sempre opportunità. Quindi, per prima cosa: restiamo positivi e concentrati sulle cose che funzionano. In questo, l’agroalimentare si conferma un settore che ha delle potenzialità enormi. Non a caso, l’ultimo report di Banca Intesa, una delle prime banche d’Europa, registra ben 4 distretti agroalimentari fra i trenta che in Italia guidano la ripresa. Di questi ben due afferiscono al mondo del vino: Valpolicella e sistema Verona; Prosecco e sistema Treviso. L’agroalimentare ha una forza evocativa che traina tutto il made in Italy: c’è grande voglia di Italia nel mondo e a noi tocca il compito di saperla coltivare, con i giusti tempi, valorizzando tipicità, qualità, tradizione e sostenibilità».

Quanto peserà avere marchi affermati in Italia?
«Il mercato italiano non è un mercato “residuale” per il vino; rappresenta quasi la metà delle vendite del nostro settore e quindi è imprescindibile per ogni cantina nazionale, piccola o grande che sia. È un mercato fortemente competitivo, dove si compete sulla qualità, dove ci si confronta con consumi regionali e territoriali, dove conta tantissimo il legame con le tradizioni locali basate su moltissimi vitigni autoctoni. Non è un campionato, è la Champions League. Quindi, ottenere l’affermazione in Italia significa aver raggiunto l’eccellenza in molti aspetti: presenza sul territorio come ettari vitati; savoir-faire produttivo, coerenza fra quanto narriamo e cosa siamo realmente, rapporto corretto sul prezzo e tanto altro…Quindi, sì: avere brand affermati in Italia ha un peso, esprime una forza che si riverbera poi nelle relazioni internazionali».

Come si rafforza un brand e un marchio italiano?
«Quante pagine ho a disposizione? Perché per rispondere correttamente a questa - che è la domanda delle domande - ci vorrebbe davvero un’enciclopedia. Banalmente, potrei dire: lavoro, lavoro e ancora lavoro. E tempo, tanto tempo. E poi, un marchio italiano: quindi Riva, Bulgari, Armani parliamo di un qualcosa che il mondo ci invidia e non si può costruire soltanto con un ottimo marketing. Ci vuole una base produttiva forte, una competenza assoluta nel prodotto, una maniacale attenzione al dettaglio, a quella piccola cosa che fa universalmente la differenza. Ci vogliono maestri artigiani, siano essi in una bottega o in un vigneto, serve la passione di quelle persone, la loro dedizione di una vita. Se abbiamo questo, possiamo coerentemente lavorare su una serie di strumenti che valorizzino questo patrimonio».

Lei ha guidato per 5 anni una realtà leader come Ferrari, di fatto monoprodotto, ed ora è ad di Santa Margherita Gruppo Vinicolo, che si può invece definire un “mosaico enologico”. Cosa è cambiato nel suo lavoro?
«Premetto che il metodo Classico Ferrari è comunque una delle componenti del business del gruppo che, per restare nel beverage, vanta diverse altre realtà sia nel vino, dal Prosecco alla Toscana all’Umbria, sia nelle acque minerali che negli spirits. Questo modello di sviluppo è di fatto l’expertise che Santa Margherita Gruppo Vinicolo è andato a costruire negli ultimi quarant’anni, cioè quel mosaico enologico lo vede presente nelle più belle regioni viticole nazionali. Un mosaico che ha fatto da base allo spirito innovatore ed anticipatore che ha portato, a sua volta, alla creazione del Pinot Grigio negli anni ‘60 e alla spumantizzazione del Prosecco già agli inizi degli anni ’50, insieme agli altri produttori pionieri del Prosecco a Valdobbiadene. Ogni lavoro ha le sue specificità, ogni organizzazione ha le sue esigenze ed entrare in una realtà nuova alle porte di una pandemia mondiale non è stata una cosa semplice perché, banalmente, ha allungato i tempi necessari per conoscere una macchina che non si è mai fermata, così come le persone che hanno costruito il successo di Santa Margherita Gruppo Vinicolo e che lo rappresentano in Italia e nel mondo, Usa in particolare».

Entriamo in dettaglio sulla realtà del gruppo. Come si compone? Tenute, ettari complessivi, bottiglie commercializzate ogni anno, giro d’affari.
«In questi ultimi anni, grazie ad un massiccio piano di investimenti (oltre 279 milioni di euro dal 2005 ad oggi) la superficie vitata del Gruppo può vantare 712 ettari - dei quali il 70% di proprietà - di cui oltre il 50% è condotto secondo i principi dell’agricoltura biologica. Nell’ultimo esercizio, il fatturato ha superato i 189 milioni di euro, superando i 22,8 milioni di bottiglie vendute. Ogni giorno nel mondo - in pratica - vengono stappate più di 62mila bottiglie del Gruppo».

Qual è la quota dell’export e quali sono i ricavi?
«Il Gruppo esporta in oltre novanta Paesi nel mondo più del 70% della propria produzione. E con Santa Margherita Usa, la nostra società di importazione diretta con sede a Miami, abbiamo rafforzato la nostra presenza nel più importante mercato al mondo».


Beniamino Garofalo

A trainare il Gruppo c’è una locomotiva insostituibile, il Pinot grigio, quanto conta per trainare le altre cantine?
«Il Pinot Grigio - va detto - è un traino per tutto il vino italiano; è uno di quei tre/quattro vini che hanno cambiato la nostra immagine nel mondo, è un patrimonio nazionale e dovremmo averne tutti la massima considerazione e rispetto. Quindi, per noi è un onore presentarci col nostro Pinot Grigio Santa Margherita che è il termine di riferimento per tutti i produttori. Ci dà l’autorevolezza per offrire al mercato - ai professionisti come ai winelover - altri vini che rappresentano con altrettanta forza il nostro Paese o che possono diventare vini altrettanto iconici nel prossimo futuro».

Come vede il futuro delle bollicine italiane? Nel gruppo ci sono etichette come Ca` del Bosco (Franciacorta) e Kettmeir (Alto Adige) e il Prosecco. Continuerà l’aumento dei consumi domestici?
«Ritengo che le bollicine italiane siano entrate definitivamente nei gusti e nelle scelte di acquisto, in Italia come nel mondo. E credo vedranno crescere ancora la loro quota di mercato. Del resto, i margini per un ulteriore sviluppo ci sono tutti: ad esempio, con i Rosé - sia metodo Classico che Martinotti - o con una forte caratterizzazione territoriale e di vitigno. Guardiamo al Prosecco: abbiamo costruito un colosso globale ed abbiamo ancora cose da raccontare al pubblico, penso alle Rive della Docg Conegliano-Valdobbiadene: denominazioni comunali, all’interno di un sito Unesco, contraddistinte da incredibili difficoltà produttive, dalla necessità di moltissime ore di lavorazioni manuali: un mondo a sé stante nel più vasto universo delle bollicine trevigiane…abbiamo ancora molto da fare e dire. E, se interpreto correttamente un sottinteso della sua domanda, non vedo una “cannibalizazione” all’interno delle bollicine del Gruppo: Ca’ del Bosco ha una sua storia, una sua identità ben precisa. Rappresenta un brand che non a caso viene considerato una case-history a sé stante, un punto di riferimento a livello internazionale, un’icona. Kettmeir, dal suo canto, è un brand che ha saputo ricostruire l’immagine di una produzione storica, il Tiroler Gold, molto in voga ai tempi della Belle Époque e da noi rilanciata e rivalutata. È una bollicina di montagna (e che montagna, se mi permette!), che è figlia di una viticoltura eroica, con caratteristiche peculiari e un’eleganza con pochi pari. Quanto ai nostri Prosecco, da Refrontolo con Santa Margherita alla gronda lagunare con Torresella, esprimono una tale varietà di profili e identità così diverse che sarebbe un grave errore omologarli in un’unica definizione. No, non temo e non vedo confusioni possibili».

Nel mercato mondiale quali strategie si dovrebbero attuare per spingere e valorizzare le bollicine italiane rispetto ad un competitor come lo Champagne?
«Il metodo Classico italiano ha peculiarità diverse dallo Champagne e considererei un’ammissione di debolezza andarlo a scimmiottare. Noi dobbiamo essere noi stessi: abbiamo bollicine che nascono sulle Dolomiti; in aree pedemontane contraddistinte da vitigni autoctoni; e anche quando scegliamo vitigni internazionali raggiungiamo livelli d’eccellenza importanti in territori bellissimi in Lombardia, in Piemonte, sull’Etna. Questo è un patrimonio unico. Abbiamo un rapporto qualità/prezzo imbattibile. Abbiamo la capacità di attrarre un nuovo pubblico, più giovane, che non vuole formalità e che punta a freschezza, semplicità, originalità: il Prosecco ha conquistato i consumatori di Parigi. Una ragione ci sarà. Però, guardi, vedo nel mondo che in tanti hanno smesso di inseguire lo Champagne e cercano di rivalutare la propria originalità: basta guardare alle profonde trasformazioni nel mondo del Cava o l’emergere di produzioni di alta qualità come nel Regno Unito, che facendo leva sulle proprie caratteristiche uniche riescono a spostare le scelte dei winelover».

Al di là dello spumante, tornando al mercato italiano, nel settore Horeca quali sono i vini su cui vorreste puntare per avere più quote, più presenza?
«Abbiamo la fortuna di poter contare sulla presenza in territori di grande fascino, dove si producono dei grandissimi vini: cito il Lugana, il vino bianco più “esplosivo” sul mercato degli ultimi anni, sapientemente rappresentato da Cà Maiol; cito con orgoglio la “nostra” Toscana, dal Chianti Classico con Lamole di Lamole alla Maremma con Tenuta Sassoregale, entrambe in conduzione totalmente biologica; cito i Vermentini di Cantina Mesa, Giunco e Opale, frutto di un vitigno che ha un potenziale ed una qualità che meritano di essere valorizzati di pari passo con la meravigliosa Sardegna: un giacimento enogastronomico unico, dal fascino impagabile, una delle culle del vino, una tradizione più che millenaria. Questi vini meritano a pieno titolo di essere sulle tavole dei migliori ristoranti in ogni angolo del mondo!».

Restando strettamente legati all’attualità, con l’arrivo del Covid e i mesi di lockdown che cosa è cambiato per il Gruppo Santa Margherita?
«Che abbiamo lavorato più di prima! Santa Margherita Gruppo Vinicolo (e qui intendo proprio tutte le persone che ci lavorano) ha colto la pandemia come una sfida personale, nessuno ha mollato o tirato i remi in barca. Del resto, avevamo migliaia di partner commerciali in difficoltà, preoccupati e con problemi quotidiani concreti da risolvere. I nostri vigneti e le nostre cantine sono stati presidiati con la tradizionale attenzione e cura. Oggi siamo più forti, con una consapevolezza nuova del nostro lavoro e del suo significato all’esterno».

Come prevede che evolveranno i consumi di vino in un settore come quello del fuori casa che resta tra quelli più in difficoltà per le conseguenze dell’epidemia? Cosa pensa delle proposte di rivedere il rapporto cantina/ristorante per spingere le vendite anche non al tavolo e puntare su bottiglie in conto vendita?
«Il fuoricasa dipende da tanti fattori: una “delimitazione” della pandemia in autunno; il ritorno a normali ritmi di lavoro con più presenze fisiche e meno smart working; il ritorno ad uno stile di vita più conviviale. Diciamo che l’estate - eccessi a parte - ha confermato la voglia delle persone, in Italia e in Europa, di tornare alla vita vissuta all’esterno delle proprie case. Il vino è stato un elemento che ha aiutato gli italiani a “far quadrato” durante l’emergenza, rappresentando valori positivi, di identità, quasi irrinunciabile. I risultati della Gdo, dell’e-commerce e del delivery ne sono dimostrazione. Ora dobbiamo aiutare l’Horeca a consolidare i primi timidi segnali di ripresa e ad individuare formule nuove di vendita. Direi che un’attenta valutazione delle giacenze in essere, una solida partnership fra cantine e ristorazione, una reale condivisione di strategie ed obiettivi dovrebbe aiutare l’horeca a passare il momento più duro. I vantaggi che reciprocamente può generare la cooperazione fra i soggetti sono evidenti; simil stabunt, simil cadent: come dicevano i Latini dobbiamo reggere insieme, altrimenti cadremo entrambi».

Scheda personale:

Hobby: design e viaggi con la famiglia
Dove trascorri le vacanze: in montagna a Courmayeur, al mare a Forte dei Marmi
Hai animali: un gatto di nome Alfredo
Il tuo piatto preferito: pasta e fagioli
I tuoi vini preferiti: dalle bollicine del Trentino-Alto Adige a quelle della Franciacorta, dai freschi Vermentini sardi ai grandi rossi toscani
Il libro che stai leggendo: La mattina dopo di Calabresi
Che sport pratichi: tennis
Sei tifoso? Molto, dell’Inter
Dove vivi e dove vivresti: vivo a Milano ma, potendo sognare, Rio de Janeiro
Il tipo di auto che preferisci: Porsche Carrera 4 targa
Preferisci spostarti in auto, treno o aereo? Dipende dal tipo di viaggio, opto sempre per il mezzo più comodo
Quante ore dedichi al lavoro? Troppe
Il tuo dress code abituale: casual chic
Quanto tempo dedichi alla famiglia: ne vorrei sempre di più

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Alberto Lupini


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