Montefalco Sagrantino si racconta: dalle origini al presente della Docg

L'Anteprima Montefalco Sagrantino (2017) si è svolta la prima settimana di giugno. Per l'occasione, ripercorriamo le tappe di un percorso di 50 anni con 3 "ospiti" particolari

11 giugno 2021 | 16:29
di Vincenzo D’Antonio
Concausa la pandemia, l’Anteprima Montefalco Sagrantino Docg annata 2017, piuttosto che nel freddo febbraio, corto nei giorni e nelle ore di luce, si è svolta nella luminosa prima settimana di giugno. Organizzazione pressoché perfetta, anno dopo anno, sempre si avverte l’impostazione dinamica e positivamente problematica che il Consorzio Tutela Vini Montefalco, egregiamente presieduto da Filippo Antonelli, fornisce alla manifestazione. La volontà di essere in gioco, di esaminare includendo e non escludendo l’evolvere dei suoi vini. Ecco: analisi dinamica e non statica, la consapevolezza di un itinere tanto ardimentoso quanto gioioso, il rifuggire dall’autoreferenzialità per andare a cercarsi, invece, le circostanze che facilitino il miglioramento continuo.



Numeri e storia del Consorzio Tutela Vini Montefalco

Partiamo da quei pochi numeri che abilitano una prima conoscenza dello scenario. I soci del Consorzio sono 70. Gli ettari vitati in totale sono 1.300. Il fatturato alla produzione è di circa 40milioni di euro. Nel 1979 veniva istituita la Doc Montefalco, seguita nel 1992 dalla Docg Montefalco Sagrantino. Sono passati 42 anni dal primo riconoscimento dei vini del territorio. Oggi, i vini di Montefalco rappresentano il 19% circa della produzione vinicola umbra. Nei 27 anni della Docg la crescita del Montefalco Sagrantino è stata notevole. Dal 2000 a oggi la produzione del Sagrantino è quasi triplicata.



Le interviste immaginarie al passato, presente e futuro del Sagrantino

La consapevolezza di cui si è detto, ovvero l’arguto sentirsi in itinere da parte dei soci del Consorzio, ci consente un’affabulazione: intervistiamo tre "persone" molto importanti, rappresentative dell’eclettica realtà del Montefalco Sagrantino: Nonno Sagrantino (NS), Papà Sagrantino (PS), Figlio Sagrantino (FS). Costoro abbracciano all’incirca l’arco temporale degli ultimi 50 anni. Essenziale, ai fini del cammino virtuoso, la presenza di significativi overlapping: nessuna cesura tra generazioni, bensì il passaggio dolce e pacatamente scandito come natura suggerisce (ma non impone).

Mi sia consentito esordire orgogliosamente affermando che è un onore, oltreché un piacere, avervi qui tutti insieme. Constato piacevolmente che trascorrono i decenni ma non cessa, anzi serenamente si incrementa la Vostra volontà di confrontarvi non solo al vostro interno ma anche con i cosiddetti stakeholders. Ecco, proprio in virtù di ciò comincerei con il chiedere a Nonno Sagrantino di farci scenario, necessariamente breve e condensato, di cosa poteva essere la realtà vitivinicola del Montefalco all’incirca 50 anni fa.
NS: Bella richiesta! Qui in Umbria, almeno in questa zona dell’Umbria, negli anni ’70 dello scorso secolo eravamo alla linea di confine tra due stagioni. Era declinante la stagione durata secoli del vino inteso come alimento, atto a corroborare esigenze di nutrizione succedanea durante la fatica nei campi e, in situazioni ben diverse, di bevanda euforizzante. Ancora si intendeva il Sagrantino, chiamato proprio così "senza un’altra parola vicina", nella sua versione passito. Un passito che fungeva da vino da pasto, abbinamento di grande bontà, allorquando i nostri pasti dei giorni festivi contemplavano la carne, sia essa di agnello oppure di maiale (maiale ancor più che agnello) oppure da cortile. La nostra cucina, la cosiddetta cucina delle nonne ad intendere la cucina domestica, era sorgente di elezione per supplicare la presenza nel bicchiere (volutamente non ho detto "calice") del nostro Sagrantino, senza parola aggiuntiva. Il vino di tutti i giorni, dalla beva facile era quel sangiovese a cui aggiungevamo un po’ di sagrantino (attualizzato, è il Montefalco Rosso Doc). Raro il consumo dei bianchi! Dicevo, però, della linea di confine con la stagione che i più avveduti tra noi cominciavano ad intravedere: la fine del dominio del vino sfuso e l’insorgenza del consumo del vino imbottigliato, da smerciare soprattutto a Roma ed anche nelle trattorie della zona che cominciavano ad accogliere flussi consistenti di turismo, non solo nazionale ma anche straniero.

Un affresco istruttivo, caro Nonno Sagrantino. In poche parole, ci hai dato ragguagli di un mondo che sapeva vivere pur stando disconnesso. E proseguiamo in questa carrellata del tempo recente che fu, dando la parola a Papà Sagrantino.
PS: Cosa saremmo senza la trasmissione dei saperi e delle esperienze delle generazioni passate. Permettimi di ringraziare Nonno Sagrantino, mio papà, per quello che ha detto e soprattutto per quello che coralmente ha saputo e voluto fare. Noi quindi, ci siamo trovati nella condizione di vivere e sviluppare lo scenario nuovo. Non dimentichiamoci mai di cosa fu lo scandalo del metanolo: il punto più basso del nostro vino, per sostanza e per immagine; ma anche, grazie a meritorio sforzo collettivo, il momento iniziale di quella risalita che, pur tra eccessi, ci ha portati praticamente all’oggi. Si trattava quindi di gestire il vino imbottigliato, farlo uscire dalla commodity, renderlo prodotto attrattivo e sapergli dare valore e poi, in conseguenza del valore, sapergli dare prezzo che remunerasse la filiera che andava costituendosi. Si è trattato perciò di fare quel lavoro faticoso, chiamiamolo proprio ‘fatica’ a cominciare dal vigneto. Acquisire competenze, aprirsi alle collaborazioni con il sapere del mondo accademico, comprendere che il processo di miglioramento doveva cominciare dal vigneto e poi, successivamente, proseguire nella cantina. Governare uno solo dei due momenti avrebbe reso vano lo sforzo. Ecco, se mi è consentito, è questo il merito corale che, come PS sento di prendermi: avere capito che eravamo alla presenza di un grande vitigno che avrebbe dato a noi tutti grandi soddisfazioni ma che per ottenere ciò si trattava di imparare, di studiare, di sperimentare. Ma forse è meglio che io mi interrompa qui e, per mia gioia ed anche per la gioia di Nonno Sagrantino, lasciamo che a proseguire sia Figlio Sagrantino.

E mi hai anticipato! Era proprio quello che stavo per fare. La parola, dunque a Figlio Sagrantino.
FS: E a riprova di quanto diceva Papà Sagrantino a proposito di Nonno Sagrantino, anche io dico che ben poco potremmo fare oggi nel mercato divenuto globale se non vi fosse stata l’intuizione strategica, seguita dalla concreta"‘fatica" nel vigneto e in cantina, di Papà Sagrantino. Io ho proseguito l’azione dei nostri padri e nel cominciare a mettere antenne atte a captare i trend del mercato domestico e del mercato estero, ho capito due cose probabilmente fondamentali la cui contraddizione solo apparente (ribadisco, solo apparente) è chiave di comprensione dello scenario attuale. Il Sagrantino, fossimo a Napoli, sarebbe definito uno scugnizzo! È esuberante di suo, vigoroso, vivace. Arriverei a dire che l’unica regola che tollera è la seguente: nessuna regola. E così, ahinoi, non si può procedere. C’è bisogno di disciplina. Sarà mica un caso che l’adeguamento a protocolli resi noti, condivisi e poi obbligatori, si chiami "disciplinare"!? Abbiamo dovuto e voluto, e grazie a competenze crescenti, potuto, disciplinare il vitigno sagrantino ed ingentilirlo. Ma eccoci al paradosso: ingentilirlo onde renderlo "presentabile in società" ma non forzare e violentare la sua natura!  Nel riuscirci, siamo adesso al cospetto di uno dei migliori vini rossi al mondo e scusate se me lo dico da me!

Per piacere, Figlio Sagrantino, ci dici meglio ancora cosa intendi per ingentilimento del Sagrantino?
FS: Dunque, ribadisco che non di snaturamento trattasi, non siamo mica sciocchi, mica depauperiamo questo tesoro che territorio e fatica dell’uomo ci hanno consegnato nel corso dei secoli! Il Sagrantino resta quel vino di grande struttura, potente e tannico che è all’origine. Il sapiente utilizzo di vinificazioni più accurate e di estrazioni più delicate, ci sta portando verso esiti lusinghieri in termini di eleganza. Faccio un esempio. Prendi un atleta muscoloso di suo. Ecco, puoi vederlo con la tuta di gara, magari anche con la tuta da riscaldamento e puoi poi vederlo vestito elegante. Avrà mica perso i muscoli? Giammai! Li ha nascosti? Neanche! Però non li esibisce vistosamente e non ne fa più l’unico elemento connotante. Magari si scopre che ha un bel paio di occhi azzurri. Mica deve avere ed esibire solo i muscoli, no?

In anno olimpico la tua, caro Figlio Sagrantino, è una gran bella immagine!
FS: Nel recente passato, e Papà Sagrantino vorrà di certo confortarmi in quanto sto per dire, il nostro vino presentava una ruvidità per certi versi aggressiva. Ecco, noi il tannino lo abbiamo addomesticato, armonicamente integrandolo alle altre componenti del vino. I tannini coprotagonisti, ma non più i soli mattatori, condividono la scena con le pregevoli componenti aromatiche. E ne beneficiamo tutti.

PS: Scusate se mi intrometto, ma ci tengo a integrare quanto ha appena detto Figlio Sagrantino. Il Sagrantino di oggi, non solo è meno tannico, ma sa garbatamente valorizzare la piacevolezza del frutto. Ciò è molto importante perché costituisce a mio avviso la nuova cifra stilistica della Docg.

NS: Un momento, e allora mi intrometto anche io. Non dimentichiamo che tutto ciò è stato reso possibile anche dall’età delle vigne. Grazie al lavoro di Papà Sagrantino, ora i vigneti cominciano a raggiungere un’età media attorno ai venticinque anni. E sappiamo bene che la maturità delle viti comporta uve naturalmente più equilibrate.

Siamo ottimisti per il futuro?
FS: ma certamente sì! Sapessi quanto ci piacciono le nuove sfide. Sono ardimentose ma non velleitarie.

E quali sono?
FS: La prima, la denominerei la sfida naturalmente perenne: il miglioramento continuo. Tu sai, e Nonno Sagrantino e Papà Sagrantino ce ne hanno reso testimonianza, che questa tensione al miglioramento continuo permea il nostro lavoro quotidiano e si traduce nelle operazioni in vigneto ed in cantina. Esse attengono la produzione del vino e si palesano con la bottiglia vestita. Ma adesso una domanda la rivolgo io a te, ci scambiamo i ruoli per un attimo. Tu lo sai quando la bottiglia è venduta?

Temo di non capire. Che significa? La bottiglia è venduta quando c’è passaggio della bottiglia dal venditore al compratore e c’è passaggio di denaro dal compratore al venditore. Mi sbaglio?
FS: Tecnicamente non ti sbagli, mi hai risposto da manuale, ma la realtà è ben altra. Ascoltami bene, la bottiglia è venduta quando è ... bevuta! Altrimenti qui ci si ostina a badare solo al sell-in, ma senza sell-out. Senza il bevitore che compra, paga e bene convivialmente, non c’è business che tenga. E questo bevitore, questo end user, come suole dirsi, dobbiamo conoscerlo sempre meglio, dobbiamo renderci attrattivi raccontando di noi, della nostra storia, del nostro territorio. E, concludo, questo end user vive nel mondo e gira il mondo.

Mi stai dicendo che anche a causa della pandemia stanno cambiando i paradigmi fondamentali del wine business?
FS: Certo che te lo sto dicendo! La commutazione paradigmatica fondamentale è una sola ed è grande così: stiamo passando dal ‘vendere vino’ al ‘comprare vino’. In altre parole, oggi il vino lo si compra, non lo si vende. Pensa a quanto sta incrementandosi l’e-commerce. L’e-commerce, riflettiamoci insieme, è ‘comprare’ vino, non venderlo. Chi si fa attore proattivo della transazione è il compratore: individua la piattaforma di e-commerce, analizza l’offering, legge, si documenta, compara world wide e poi decide l’acquisto.

Ma allora se il comportamento proattivo è del buyer, voi seller che cosa farete?
FS: Bella domanda! Noi seller, diventiamo anche noi buyer! E sai cosa dobbiamo imparare a comprare, affinché poi gli end users comprino il nostro vino? Noi da costoro dobbiamo riuscire a comprare "attenzione"! L’attenzione alla nostra realtà, al nostro territorio, alla nostra storia, al nostro artigianato, alla nostra cucina e al nostro vino. Non so se sono stato chiaro. Perciò diventa importante anche il discorso dell’enoturismo o per meglio dire del turismo enogastronomico. Perciò diventa importante inventarsi anche nuove modalità di svolgere manifestazioni.

Mi stai dicendo delle cose molto interessanti ed anche entusiasmanti. Come collochi, e giuro che è l’ultima domanda, il tuo territorio, la tua Umbria amatissima, nello scenario attuale ?
FS: La storiella del birillo rosso di Foligno non sto qui a ripetertela, è ben nota a tutti. Allora ti dico cosa altra: l’Umbria è al centro dell’Appennino (Appennino Umbro-Marchigiano, per la precisione). L’Appennino va visto e considerato come il nuovo propellente della nostra società. Pensa al progetto strategico del New Green Deal e, per esso, al cosiddetto from Farm to Fork (F2F) della Ue. Tutto il Paese avrà bisogno e "voglia" di Appennino, perché è qui che si esprime il migliore mix per la qualità della vita. E l’Appennino è la Montagna del Mediterraneo. Ergo, l’Umbria è al centro del Mediterraneo. Altro non aggiungo.

E se Figlio Sagrantino altro non aggiunge, nulla aggiungiamo! Si conclude ribadendo quanto in afflato di successione generazionale hanno detto Nonno Sagrantino, Papà Sagrantino e ampiamente Figlio Sagrantino. L’ottimismo per il futuro della denominazione Montefalco (non solo Docg, ma anche le Doc, vini bianchi inclusi) non è di facciata, bensì poggia su basi solide: la lungimiranza del Consorzio, il loro porsi fluens con propensione ad analisi, l’individuazione dell’obiettivo prossimo venturo, il loro pensare inclusivo.

In definitiva il loro voler bene all’Italia tutta, e la consapevolezza che il futuro del Paese si gioca, in semplicità solo apparente, sul fatto che siamo bravi a fare cose belle e buone che piacciono al mondo e queste cose amiamo farle all’ombra del campanile. E Montefalco, ringhiera dell’Umbria, una tale composita considerazione la stimola e la agevola.



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Alberto Lupini


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