Campania Stories, pregi e difetti del vino dal Sannio al Cilento

L'edizione 2022 dell'evento dedicato al vino campano è stata l'occasione per una riflessione sulla produzione regionale, che conta 1,4 milioni di ettolitri per 26mila ettari di vigneti

08 settembre 2022 | 16:02
di Vincenzo D’Antonio

Si è appena conclusa l’edizione 2022 di Campania Stories. Tanti gli spunti di riflessioni atti ad agevolare le considerazioni sullo scenario attuale del vino in Campania, quella Campania Felix che da sempre ha nella coltura della vite uno dei tratti distintivi della sua produzione agroalimentare.

Tutti i numeri del vino campano

Facciamo prima parlare i numeri. Forniamo dati salienti sulla base dei quali possiamo procedere a tratteggiare la situazione attuale ed individuare le prospettive di evoluzione.

Come al solito, elogio del pressappoco: dati approssimati a beneficio di ergonomia di lettura e di memorizzazione, senza che ciò maculi la definizione attendibile dello scenario. La produzione vitivinicola campana si attesta su poco meno di 1,4milioni di ettolitri, ovvero poco meno del 3% del totale nazionale. La superficie vitata regionale ammonta a circa 26mila ettari di vigneto, ovvero il 4% circa della superficie vitata nazionale. L’economia del vino ha un valore stimato di circa 72milioni di euro, pari a poco più del 2% del valore nazionale.

Ed è su questi tre valori percentuali tra scenario campano e scenario nazionale, nel loro esprimersi con 3% (volumi), 4% (superficie vitata), 2% (valori) che ci si basa per una prima amara considerazione. Nonostante un’accorta resa per ettaro (4% della superficie e 3% dei volumi), che lascia intendere una lodevole propensione alla qualità dei vini, il valore è solo il 2%: quindi un prezzo a bottiglia (in sell-in) più basso della media nazionale.

Il peso delle denominazioni protette è considerevolmente basso: 254mila ettolitri DOP (19% circa del totale) e 118mila ettolitri IGP (9% circa del totale). Le DOP sono 19 e le IGP sono 10.

I vini bianchi con 640mila ettolitri costituiscono il 46% della produzione regionale; i vini rossi e rosati, con 735mila ettolitri ne costituiscono il 54%. Ne consegue pertanto che sia la definizione di Campania regione bianchista che, all’opposto, di Campania regione rossista, appare inesatta e fuorviante. Quasi salomonico fifty fifty lo share tra rossi (+ rosati) e bianchi.

Tre aree vitivinicole costituiscono l’80% circa della produzione vinicola: il Sannio (41%), l’Irpinia (28%), il Cilento (11%). Le cantine imbottigliatrici sono circa 450.

Per snellezza espositiva, sapendo di fare torto a tanti vitigni cosiddetti minori, riconduciamo a cinque le varietà dei vitigni campani: due rossi (Aglianico, Piedirosso), tre bianchi (Falanghina, Fiano, Greco).

Quale posizionamento per i vini fatti partendo da questi vitigni? Quale la loro qualità? Le meticolose degustazioni effettuate sia nella tasting room allestita presso l’Hotel Gli Dei di Pozzuoli che nelle cantine visitate in diverse aree, evidenziano felicemente il lavoro almeno decennale svolto sia nel vigneto che in cantina. A dirla in successivo livello di dettaglio, riservandoci in tempi successivi di raccontare di alcune realtà specifiche, si nota un passo in avanti di Aglianico, specialmente in alcuni Falerno, un passo in avanti di Falanghina e, almeno due passi in avanti di Piedirosso.

Le dolenti note 

Or incomincian le dolenti note.

Ricorriamo al celeberrimo verso dantesco per intendere che non è così fulgida come invece epidermicamente appare, la prospettiva del business del vino in Campania.

Cerchiamo di individuare i motivi che ci inducono al cauto pessimismo, partendo dalla causa basilare da cui le altre scaturiscono.

La causa fondamentale, che innesca le altre, è la carenza di risorse intangibili.

La crescita economica delle aziende vitivinicole, non solo campane, è oggi fortemente correlata alle cosiddette risorse intangibili che in prima approssimazione qui assimiliamo al capitale intellettuale, ancora da valorizzare, ed al mondo delle denominazioni di origine (DOP e IGP).

La Campania del vino, con le sue 19 DOP e le sue 10 IGP, ha importanti risorse intangibili e, di conseguenza, ha il potenziale per valorizzare (= dare valore) i suoi vini, per accedere al credito (cosa altra dalle provvidenze regionali) e per realizzare progetti internazionali che consentano di crescere e di esportare su tutti i mercati.

Aumentare il potenziale di offerta all’estero dove è forte la richiesta di qualità made in Italy è fattore fondamentale ai fini del business.

Torniamo a quei due numerini, il 3% del volume ed il 2% del valore, per ribadire quanto sia importante e dirimente per le aziende vitivinicole campane dare ai loro vini valori di mercato molto più elevati di quelli attuali.

Il capitale intellettuale nella filiera

Il capitale intellettuale generato nella filiera dei vini DOP e IGP può servire ad attrarre finanza e partnership di alto livello utili per accelerare la crescita. Nella fase attuale in cui le risorse intangibili sono il grande serbatoio di valore delle economie globalizzate, il vino campano può accrescere la propria dimensione e trovare un posizionamento internazionale più forte, oggi appannaggio solo delle regioni che, si dia onore al merito, sanno fare ciò molto bene e da molto tempo.

Quattro le DOCG campane: Aglianico del Taburno, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi.

Un’indagine meticolosa, svolta osservando puntualmente la wine list di ben 115 ristoranti italiani negli USA svela che tra i vini “importanti” del made in Italy sono quasi sempre presenti Amarone, Barolo, Brunello, Chianti Classico, Verdicchio, e quasi sempre assenti le succitate quattro DOCG della Campania.

Dati precisi: Taurasi presente nell’11% dei 115 ristoranti; Fiano di Avellino, 7%; Greco di Tufo 5% e, duole dirlo, totalmente assente l’Aglianico del Taburno.

Lo stesso dicasi, negli USA, per il retail specializzato.

Viceversa, costituisce nota positiva la presenza su alcune piattaforme di e-commerce.

La dimensione dell’azienda vitivinicola non rappresenta un problema laddove le filiere funzionano e i Consorzi riescono a governare e tutelare sistemi di produzione agroalimentare di qualità, compattando supply chain, logistica, comunicazione.

Dal vino che si vende al vino che si compra 

Nel mercato globale, se ne prenda finalmente atto, siamo passati dal vino che si vende, al vino che si compra. E non è cosa da poco!

Quando il mercato è del seller, ovvero di colui il quale vende, esso è un mercato push, ovvero le vendite vengono spinte. Il venditore calibra i trasferimenti di conoscenza del prodotto: conoscenza quanto basta per differenziarmi dal competitor, ma non tanta al punto da rendere il compratore un consumatore troppo competente!

Atto cruciale il sell-in, lasciando che sia poi il distributore / importatore, il player che si prende carico del sell-out.

Oggi il mercato globale, con mosse non ancora palesemente evidenti e che pertanto necessitano di osservatorio (e di risorse intangibili) per essere ben lette ed interpretate, sta diventando il mercato del buyer. Da push a pull.

Di tendenza, diviene fondamentale presidiare il sell-out.

E quale dimostrazione più evidente di questo trend se non la vistosa crescita delle vendite on-line mediante piattaforme di e-commerce?  Ma siamo sicuri che è corretto, ci sia consentita la pignoleria, chiamarle “vendite” on-line?! Attenzione, riflettiamo insieme, non sono “vendite” on-line, bensì sono “acquisti” on-line!

Auspici per il futuro 

Campania stories, frutto della professionalità, della mente e del cuore di Diana Cataldo, Massimo Iannaccone e Serena Valeriani, già guarda all’edizione 2023 che si svolgerà in Irpinia.

Si auspica quel tocco in più, che tanto valore aggiunto arrecherebbe: abilitare momenti di confronto sulle tematiche del business del vino, sapendo e volendo andare oltre le degustazioni, lodevolmente impeccabili, che dell’evento costituiscono comunque il core.

Parlare di vino, consapevoli che intorno al prodotto vino, intorno alla bottiglia stappata e bevuta gira un business che, non dimentichiamolo, ha suo starter nelle emozioni che suscita e che propaga.

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Alberto Lupini


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