Uno pensa al binomio “birra e letteratura” e la memoria corre subito a tanti scrittori contemporanei. Al francese Philippe Delerm e al suo “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri”, elogio dei piccoli piaceri della vita gustati nella ritualità di un quotidiano vissuto con ritmi calmi. All’irlandese Roddy Doyle e al suo “Due pinte di birra”, in cui il ritrovo quotidiano a un pub di Dublino di due amici per il rito consolatorio di una pinta (spesso di Guinness) è l’accesso essenziale per un confronto schietto sulle novità del giorno, nel pubblico e nel privato, e per tracciare un racconto dell’Irlanda di oggi.
I panini e le birre del commissario Maigret
Oppure, andando indietro di qualche decennio, a George Simenon. Il prolifico romanziere belga fa bere al suo Maigret fin dal suo romanzo d’esordio - quel “Pietr il Lettone” che per Gide era anche il migliore - una birra via l’altra, ordinate al telefono con vari panini imbottiti al bistrot vicino al suo ufficio al Palais de Justice nel Quai des Orfèvres, quartier generale della polizia giudiziaria a Parigi.
Panini e birre che sostituiscono i pasti regolari nei momenti decisivi delle indagini, rafforzando le doti intuitive del massiccio commissario e che, potere della finzione letteraria, attraggono il lettore più di ogni panino e birra reali. Sarà perché vengono consumate in quell’ufficio imponente e triste affacciato sulla Senna, scaldato da una stufa di ghisa vicino alla quale Maigret si mette appena entrato, senza togliersi il cappotto fradicio dalle frequenti piogge parigine, per scaldarsi meglio.
Shakespeare, la birra che ha cambiato la storia del teatro
Invece lo scrittore che ha determinato con una citazione della birra un’autentica rivoluzione nella storia della letteratura mondiale è Shakespeare. Nel “Enrico IV” il principe Enrico, il futuro re Enrico V, incontra un amico di giovinezza. Si dice stanco e chiede una birra. In questa richiesta, nel linguaggio con cui è espressa e che caratterizza l’incontro con l’amico di giovinezza, Shakespeare ha attuato una mescolanza di stile sublime e stile comico, e in questo consiste una delle novità della sua arte, come ha spiegato il grande studioso Erich Auerbach. Nessun eroe tragico classico avrebbe chiesto una birra, e per di più con quel modo di parlare “basso”, perché ciò che riguardava i personaggi di alto lignaggio doveva mantenersi sempre a un livello elevato. Invece qui mescolandosi con cose e persone di basso rango, espresse con un linguaggio quotidiano, fanno del drammaturgo inglese un campione della grande filiera realistica della letteratura occidentale.
Kafka e quella birra col padre sulla Moldava
Chi avrebbe mai detto, conoscendo il difficile rapporto di Kafka col padre, che lui stesso avrebbe evocato affettuosamente, in una delle lettere ai genitori scritta dal sanatorio pochi giorni prima di morire, un episodio della sua adolescenza col padre? Lo scrittore definisce sé e il corpulento Herman come “metodici bevitori di birra” quando, lui ragazzo, andavano insieme alla Civica Scuola di nuoto sulla Moldava. La personalità eccezionale di Kafka non esclude contraddizioni, pensieri di segno opposto, e la "Lettera al padre", terribile atto d’accusa, non esclude che a quel padre autoritario Franz volesse bene. Ed è significativo che la felice convivialità di una bevuta di birra fosse tramite per rammemorare momenti sereni negli ultimi suoi giorni di vita.
La birra trova spazio in un'accezione totalmente diversa in un passo de “Il Castello”, ultima opera incompiuta del grande praghese. Dopo che K., il protagonista che cerca inutilmente di accedere al castello, si sveglia dalla notte passata a dormire su un giaciglio improvvisato sul pavimento di un'osteria, vede grandi pozze di birra. Esse sono simbolo dell’avversione di Kafka per il sudiciume esteriore e interiore che contraddistingue la vita e il comportamento degli avventori dell’osteria e in generale per il modo confuso, misterioso, vessatorio e assurdo con cui le autorità gestiscono il Castello, cioè il potere e la legge.
Walser e le corroboranti bevute di birra con il protettore Carl Seelig
Ad un certo punto della sua vita Robert Walser, lo scrittore svizzero autore di libri oggi considerati fondamentali come “Jacob von Gunten” e “L’assistente”, che raccontano di protagonisti deboli, senza volontà, in balia di chi invece ha imparato il mestiere di vivere, cedette alle tante afflizioni e difficoltà che ne avevano impedito il successo. Finì in manicomio, dove visse per decenni, fino alla morte nel 1956, e dove andava a trovarlo un suo protettore, Carl Seelig.
I due facevano lunghe passeggiate, attraversando le montagne della Svizzera tedesca, e Seelig in un libro riporta le conversazioni in cui Walser rifonde la sua visione del mondo, della letteratura, dei rapporti umani. Uno degli aspetti più vivi di queste passeggiate sono le soste nelle Osterie, dove Walser, che aveva avuto in passato l’abitudine ad alzare il gomito pregiudicando anche così la sua carriera, innaffia con grandi e allegri boccali di birra le pietanze condivise con Seelig. Anche in questo caso, e con ancora più forza, la birra (e il cibo) consumati con quella che dovette essere l’unica persona che fu vicina a Walser nella sua vecchiaia, ha la potenza di un personaggio e rappresenta uno strumento benefico di avvicinamento tra persone, di scioglimento delle diffidenze, delle chiusure, della scontrosità dell’anziano autore de La passeggiata.
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Alberto Lupini
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