Una serata da ricordare quella vissuta al bistellato San Domenico di Imola (Bo) trascorsa nel segno dei vini di una blasonata firma del vino italiano come quella della famiglia Marone Cinzano e della loro tenuta di Montalcino, la Col d’Orcia. Un’oasi biologica, come la definisce il Conte Francesco, Presidente e entusiasta prosecutore dell’opera iniziata dal padre Alberto Marone Cinzano nel lontano 1973 quando diede vita alla Col d’Orcia acquisendo dalla famiglia Franceschi la vasta tenuta agricola del Poggione, oltre 540 ettari posti sul versante sud delle colline di Montalcino che spazia dal fiume Orcia a Sant’Angelo in Colle, a circa 450 mt. di altitudine.
Aperitivo in cantina al San Domenico
Verso il biologico
Ben 140 gli ettari vitati incastonati in un meraviglioso scenario naturale che rappresentano, all’interno della pluricentenaria attività nel settore dei Marone-Cinzano, la prima esperienza diretta in veste di viticultori.
Da sinistra Francesco e Santiago Marone Cinzano
Dal 2010 la Col d’Orcia ha attivato il processo di conversione biologica (e da qualche anno, senza troppo proclami, anche quello biodinamico) non solo di tutti i vigneti ma anche degli uliveti, degli ettari dedicati al seminativo e finanche del parco e dei giardini della tenuta. Un atteggiamento non di facciata ma che la famiglia Marone Cinzano a Col d’Orcia porta avanti fin dai suoi esordi, con la convinzione che la sostenibilità ambientale e il preservare l’ambiente dove si vive e si opera sia un dovere morale prima che una scelta agronomica, attenzione che la terra ti restituisce sempre.
L’abbinamento con i piatti di Max Mascia
E assaggiando i loro vini questa premura si è sentita perfettamente a partire dall’iniziale Ghiaie Bianche 2020, Sant’Antimo Doc, Chardonnay in purezza elegante e strutturato, di bella concentrazione aromatica, proveniente da terreni di origine marina a ridosso del fiume Orcia, dotato di una scalpitante acidità che gli dona una inequivocabile personalità e che fa presagire una lunga vita in bottiglia.
Per la serata il padrone di casa dell’unico ristorante bistellato dell’area metropolitana bolognese, il San Domenico di Imola, il talentoso chef Max Mascia, ha selezionato dal menu alcuni dei piatti che potessero dialogare al meglio con i vini Col d'Orcia.
E così il fresco, salmastro e incisivo Ghiaie Bianche 2020 ha accompagnato il suggestivo aperitivo ospitato in quel monumento enologico che è la cantina del San Domenico mentre è toccato a quattro piatti come il Petto e coscia di quaglia al tegame, purea di broccoli e crema di carota; l’iconico “Uovo in raviolo San Domenico con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo di stagione; il Riso Mantecato con cipolla tostata con ristretto di sugo di arrosto caramellato e la Guancia di vitello brasata con caviale di melanzane svolgere il ruolo di sparring partner della degustazione (verticale quanto a millesimi ma in parallelo come assaggio circolare fra i diversi abbinamenti nel corso della cena) delle cinque annate di Poggio al Vento - Brunello di Montalcino Riserva docg selezionate per la serata dal Conte Francesco e da suo figlio Santiago: la 2001, la 2006, la 2010, la 2012 e la 2015.
Ghiaie Bianche 2020 Chardonnay
Alla scoperta di cinque millesimi
Un arco temporale importante che ha dato modo di constatare l’eccellenza di questo protagonista della denominazione, autentico benchmark del Brunello di Montalcino Riserva in stile “tradizionale” e che rappresenta il primo vigneto piantato dal Conte Alberto nel 1974 su terreni sabbiosi e calcarei in un luogo esposto al vento e dominato dalla quercia secolare dove i viticoltori si riposavano a godersi l’ombra. Vigneti in buona parte ancora originali e quindi quasi cinquantenari insieme a impianti più giovani che uniscono le forze per realizzare questo Brunello Riserva prodotte solo nelle annate giudicate eccelse, secondo il severo giudizio familiare.
Poggio a Vento annate in degustazione
Cinque millesimi accomunati da annate meteorologicamente calde se non addirittura siccitose ma che grazie alla accorta selezione clonale, alla densità d’impianto e alla bassa resa per pianta ha permesso di ottenere uve perfette tanto da poter produrre il Poggio al Vento. Come ha sottolineato Francesco Marone Cinzano: «il cambiamento climatico è la sfida che ci impegna maggiormente nelle scelte dello stile di vino che andremo a fare in futuro ma l’importante è di mantenere un approccio costruttivo rispetto a questo cambiamento non oppositivo, saremmo perdenti. Le piante stesse si stanno adattando a queste condizioni, soprattutto quelle più vecchie che godono di un radicamento più profondo».
«Certo - ha aggiunto il figlio Santiago - mi augurerei di vedere annate fresche e bilanciate come la 2016 non calde come la 2015 e la 2012, ma penso che quest’ultime rappresentino un perfetto esempio di come sarà Poggio al Vento nei prossimi anni».
L’annata 2015
Prendendo spunto dalle sue parole diamo qualche nota sulle singole annate partendo proprio dalla 2015, seconda annata (dopo la 2013) certificata biologica, caratterizzata da ondate di calore, prolungate per quasi 20 gg, che hanno prodotto all’interno degli acini temperatura estreme. Stress termico che ha portato ad un’evoluzione dei tannini già in pianta, che al sorso si intuisce dalla sfumatura lievemente addolcita che si percepisce nel finale.
L’annata 2012
La 2012 si è presentata in vendemmia con un calo di produzione di oltre il 30 per cento con acini piccoli e grande concentrazione delle uve, di ottima qualità. Un millesimo di bella personalità, avvolgente, dove prevalgono le note di frutti rossi e una speziatura mai invadente con sorso equilibrato e possente.
L’annata 2010
La 2010 con adeguata piovosità primaverile ed estate con temperature non eccessive al calice presenta note di frutta matura (lampone e ciliegia) e potenza calorica che evidenzia una certa austerità. Bella freschezza e finale su sbuffi di arancia amara con tannini di ottima fattura ma forse un po’ sottotono.
L’annata 2006
Nella 2006 l’andamento climatico è stato piuttosto bilanciato senza particolari stress estivi con maturazione equilibrata delle uve che nel calice si traduce in una struttura potente e di finissima eleganza. Al naso le note tipiche del vitigno vengono esaltate dai terziari dati dall’affinamento in botte con tannini fini e perfettamente integrati in un sorso di grande ampiezza e persistenza.
L’annata 2001
Chiudiamo la carrellata con la 2001, annata caratterizzata dalla forte gelata di aprile che ha ridotto la produzione a vantaggio della qualità con vendemmia anticipata a causa di un’ondata di calore fra fine luglio e inizio agosto. Sia all’olfattivo che al gustativo si fa strada una esuberanza giovanile fatta di un fruttato ammaliante che si fa fatica ad associare ad un vino di oltre vent’anni. Trama tannica fine, struttura potente ed elegante con invidiabile freschezza e infinita persistenza.
La nostra graduatoria
La nostra personale graduatoria vede il 2001 e il 2006 a pari merito, il primo per la giovanile esuberanza e il secondo per equilibrio e possibilità di evoluzione, forse addirittura superiori al fratellino maggiore seguiti, in ordine di preferenza dalla 2012, 2010 e 2015.
Dulcis in fundo il Moscadello di Montalcino. A chiudere in dolcezza la serata ci ha pensato la voluttuosa “Caprese al Cioccolato, con mousse di mascarpone al pistacchio e crema alla nocciola” abbinata ad un altro simbolo della città del vino senese, come il Moscadello di Montalcino, unico vino ottenuto da un vitigno autoctono (e storico) dell’area e che oggi conta su una ristretta cerchia di una decina di produttori fra gli oltre 250 dediti al Brunello. Una chicca che rappresenta l’anima più antica della vocazione vinicola del borgo, che a dispetto dei circa un secolo e mezzo di vita del Brunello, era famoso ed apprezzato fin dai tempi del papa di Pienza, Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini.
Pascena 2016 Moscadello di Montalcino
Dai cloni autoctoni di Moscato d’Alessandria e dai fertili terreni di Montalcino la Col d’Orcia produce una piccola quantità di Pascena, in questo caso millesimo 2016. Un Moscadello raccolto con vendemmia tardiva che denota un carattere unico fatto di leggiadria aromatica associato ad una freschezza acida che lo rende soave, elegante e mai stucchevole, niente a che vedere con il l’ossidato “cugino” Vin Santo con cui spesso all’estero viene confuso, paragonabile (se proprio gli si vuole attribuire una similitudine) ad un incrocio fra il Moscatel de Setúbal e un Riesling vendemmia tardiva della Mosella.
E chi meglio dei Marone Cinzano potevano dedicare questa attenzione ad un vitigno come il Moscato, che nella lunga storia della familiare nel natio Piemonte ha costituito l’elemento centrale della loro fama di grande azienda internazionale, con tanto di esplicito input regale da parte di Carlo Alberto di Savoia che stimolava la famiglia a prendere iniziative per far decollare l’industria vitivinicola dell’astigiano.
Assist che la famiglia ha colto in pieno e a suon di aromatici grappoli di moscato ha messo le ali ai vini aromatizzati (i famosi vermouth o vèrmot per dirla alla piemontese) e alla fama mondiale delle profumate bollicine, ottenute secondo il metodo “Marone Cinzano”, del nobile Asti Spumante.