Da anni avvertiamo del rischio che la ristorazione italiana possa perdere la sua identità dopo le tante, troppe, fughe in avanti per rincorrere mode, marketing e nuovi gusti che spesso durano lo spazio di un mattino. C’è a volte la ricerca di novità fini a sé stesse e che alla fine portano solo ad un’omologazione per cui mangiare un uovo “poché” a Milano, a Copenaghen o a Shanghai cambia ormai poco, salvo la distanza da casa.
Spesso la sensazione è quella di entrare in locali molto di tendenza, ma senza anima, dove l’unica differenza è la lingua che parlano i camerieri. Un po’ come succede, all’altro capo del mondo del mangiare fuori casa, in un fast food, dove la proposta (misera) è uguale ovunque.
Nel nostro Paese si avverte una sorta di giro di boa e nell’aria c’è voglia di italianità, anche per quanto riguarda la ristorazione
Il risultato è che la cucina italiana stava perdendosi per strada
Sarà l’effetto della globalizzazione, o della logica del gregge di certa stampa e di tanti blogger che elogiano questi modelli, ma spesso davanti a certi piatti “fantasiosi” ciò che si percepisce è solo l’estraneità ad un territorio o a una cultura. E come se non bastasse abbiamo avuto, e continuiamo ad averli, troppi congressi e opinionisti che hanno la pretesa di dettare la linea a tutto un comparto, salvo poi servire da cassa di risonanza per i soliti noti o per quanti pensano che ciò che conta sia solo il “fine dining” e le sperimentazioni fini a sé stesse. Il risultato è che la cucina italiana, con valori, aromi e stile, stava perdendosi per strada. Quasi che l’immancabile guancia a bassa temperatura, che nessuno un tempo proponeva, sia l’obiettivo irrinunciabile di un grande chef.
La ristorazione deve rappresentare uno stile di vita e una cultura
Per carità, l’alta cucina è fondamentale in ogni Paese. E lo è soprattutto in Italia e per la sua immagine nel mondo. La ricerca di tecniche e materie prime è indispensabile ed utile a tutto il sistema, ma il valore di una certa ristorazione lo si misura quanto più è capace di rappresentare uno stile di vita e una cultura. E questo è proprio quello che negli ultimi anni si rischiava di perdere.
Ora, abbandonando ogni provincialismo, va detto che c’è voluta una pandemia per fare capire a molti cuochi, per fortuna anche italiani, che certi limiti - anche economici - non potevano essere superati. Certi menu assurdamente ricchi di proposte sono stati ridotti, così come sono state abbandonate alcune lavorazioni che risultavano un insulto al buon senso, prima ancora che all’etica.
Nell’aria c’è tanta voglia di italianità
Per fortuna si avverte una sorta di giro di boa e nell’aria c’è tanta voglia di italianità, che è poi quello che cercano gli stranieri che sono tornati a frequentare il nostro Paese. Non è un caso che i piatti più celebri di due grandi cucine tristellate, quella di Niko Romito e quella dei fratelli Cerea, siano gli spaghetti al pomodoro e i paccheri alla Vittorio. Grazie all’impegno di molti cuochi si ripropongono ricette della tradizione in chiave contemporanea e si valorizzano prodotti della nostra filiera agroalimentare. Che è poi ciò che ci si aspetta da professionisti che sono la nostra prima fila per la promozione dell’Italia. Questa è la strada da seguire ed è a questi modelli che devono puntare gli interventi previsti dal Pnnr che non possono finanziare nuovi rischi di deragliamento.