Dopo il film The Menu che ha diviso nettamente il pubblico dei buongustai, la chiusura annunciata di ristoranti di gran pregio mondiale e i fallimenti di ristoratori patron che faticano a mantenere il livello raggiunto, abbiamo incontrato Lucio Pompili, una delle prime stelle Michelin marchigiane nel 1990.
Cosa ne pensa di questo atteggiamento lei che in tutti questi anni non ha mai abbandonato il luogo, il territorio e quindi la cucina tradizionale?
Intanto che una rondine non fa primavera. È vero alcuni ristoranti chiudono, cambiano indirizzo. Questo accade perché tra tradizione e innovanzione sta il cambiamento.
Che vuol dire?
La cucina è un linguaggio in continuo movimento e non è detto che il solito linguaggio sia compensibile. Stiamo parlando di alta ristorazione che ha da sostenere costi altissimi per la conduzione delle sue case e tutto questo si riflette su dei listini molto alti che non sempre corrispondono al buon ritorno dei conti in azienda.
Pensa anche lei, come molti opinionisti, che i clienti esigenti e colti si siano un po’ stancati del fine dining?
Il mio pensiero è questo: la cucina è una sola, quella buona. E quando gli italiani si renderanno conto della grande varietà, delle ricchezze delle loro materie prime e della forza delle cucine regionali non ce ne sarà più per nessuno. Questo lo ha asserito a un convegno Paul Bocuse 40 anni fa. Replicò questa stessa cosa Franco Colombani ad un congresso a Milano. Quando fondò Linea Italia in cucina. Della quale io sono stato un artefice come molti altri. Da qui nacquero Le Soste che sono state il punto di partenza di confronto e di incontro dei grandi ristoranti italiani.
Lo chef Lucio Pompili
Secondo lei oggi c’è una crisi identitaria?
Divulgare prodotti uguali da Nord a Sud sotto la grande influenza spagnola con San Sebastian è stata una delle cause di questa crisi. Tutti sono stati artefici e interpreti nel saper introdurre questo nella propria ricetta regionale. Un altro punto debole è che non esiste più la cucina di casa. Dietro i fornelli non c’è più una mamma, una nonna, una zia che dà un imprinting ai giovani cuochi. Quelli che diventeranno cuochi domani stanno mangiando hamburger e patatine oggi. E non avranno mai memoria del vero sapore.
Lei non ha mai abbandonato, in tutti questi anni, la cucina tradizionale del suo territorio. Da buon cacciatore ha dato sempre risalto alla cacciagione. È stata una scelta vincente?
In questi flussi e riflussi la tradizione si sgrassa e viene cotta in maniera leggera e delicata. Il selvatico è un buon istruttore per un cuoco perché quella cucina lì viene dalle grandi cucine di casa. La selvaggina a tavola è stata sempre il piatto principesco. Così nasce la cucina sontuosa delle grandi occasioni. Sono cucine emozionali. Prodotti accesi. Per giunta bio. Queste carni sono fantastiche. E piacciono anche a chi desidera piatti più leggeri.
Secondo lei c’è una voglia di ritorno ‘alla normalità’?
Nei giovani c’è un ritorno alla normalità alla ricerca di cose originarie e non originali.
Qualcuno pensa anche che, in questi ultimi tempi, si è dato più risalto all’impiattamento, ai colori, agli effetti speciali tralasciando i sapori. Secondo Lei?
Tutte le ricerche finiscono nell’esasperazione. Ad un certo punto l’esasperazione si rovescia e casca a terra. E come ogni cosa è da lì che rinasce e riparte. È un ciclo che abbiamo già visto. Storicamente è già accaduto. Una cosa che non va bene è che i vecchietti come me parlano sempre e solo di tradizione. La cucina va conosciuta frequentando i ristoranti e gli altri cuochi. Bisogna essere aperti.
Gino Veronelli diceva che un vero cuoco deve andare a mangiare dai suoi colleghi durante il tempo libero...
È verissimo. Non mettersi nella posizione di criticare ma di osservare. L’osservazione avviene da sopra. Consapevole, molto sincera e neutrale. Onesta direi. Non di parte.
Per lo chef Lucio Pompili la cucina è una: quella buona
Alcuni suoi colleghi dicono che i loro clienti hanno finito i soldi. È vero?
L’Italia sta risparmiando perché si fanno profitti con ottimi interessi. Il prezzo che ne consegue è l’innalzamento dei tassi di interesse e chi è indebitato lo avverte. Però vorrei dire, sempre osservando dall’alto, che i buoni ristoranti sono pieni. I giovani intelligenti rinunciano a spendere per la tecnologia e preferiscono un buon vino. Ne frequento molti e ve lo posso garantire.
Come si può risolvere, secondo lei, questa crisi momentanea?
Dalla crisi si riparte sempre ed è questa la grande cosa. La risolveranno i giovani con le loro idee. Come tutte le generazioni hanno saputo fare. Come abbiamo fatto noi a suo tempo. Dando risalto al luogo di origine, al territorio.
Quindi lei è la dimostrazione che il luogo, il territorio e la tradizione sono vincenti?
Sì perché tu puoi fare la tua cucina in una fascia di territorio senza doverla stereotipare con i prodotti che non ti appartengono. C’è sincerità. Voglio citare Guido Piovene che nel suo ‘Viaggio in Italia’ fece questa affermanzione: ‘Il confine è netto tra la Romanga e le Marche e lo si distungue dal fatto che nelle Marche ci sono i piccioni sui tetti.’
Per concludere?
Credo che la conclusione spetti al mercato e il mercato premia sempre chi fa bene in quel momento. Il mercato è una legge. Se segui quella non ti sbagli mai. Tappeto rosso ai tutti i nostri ospiti.
I pensieri dei cuochi tradizionalisti: