Dai fratelli Cerea a Carlo Cracco, da Filippo La Mantia a Umberto De Martino, sono tanti i cuochi che si stanno mobilitando per dare una mano nell’emergenza e sostenere il personale sanitario e i volontari in prima linea nella guerra al coronavirus in Lombardia. La categoria che per prima ha pagato il costo della chiusura delle attività (e con assoluta incertezza sul futuro) si schiera al fronte come le formazioni ausiliarie di un esercito che ci impegna tutti. E intanto sempre più ospedali in Bergamasca (che resta il punto più esposto del fronte) e in tutta la regione cercano cuochi e personale per i servizi di ristorazione.
Su un altro piano c’è poi l’attività di delivery che stanno compiendo molti locali. Un modo per garantire un minimo di continuità e di occupazione, ma anche un’opportunità anche per chi è fuori casa e non trova più mense o esercizi pubblici dove mangiare. Pensiamo solo ai servizi essenziali o alle forze dell’ordine. A ben guardare proprio il servizio di consegna a domicilio di pranzi e cene (con le opportune dotazioni di sicurezza per il personale, dotato di protezione, e i clienti) potrebbe però costituire una delle strategie con cui battere il virus e al contempo tenere in attività almeno i ristoranti più organizzati. Perché non ridurre le occasioni di uscita di “tante persone” (per acquistare cibo ad esempio) e utilizzare “poche persone” per portare i pasti e prodotti in casa?
Oggi il delivery è un'attività che si fa per pochi fortunati che se lo possono permettere (o che in tempi di forzata quarantena non sanno cucinare), ma potrebbe diventare un servizio semipubblico per l'emergenza dove c'è gente che deve restare a casa e ci sono professionalità che vengono sprecate... E i soldi dello Stato, invece che destinarli alla cassa integrazione di cuochi e camerieri per stare a casa, potrebbero servire a sostenere queste attività.
Se uno dei problemi veri di oggi è infatti quello di garantire il distanziamento sociale e tenere la gente in casa per qualche settimana, meno gente esce ad approvvigionarsi (anche di cibo) meglio sarebbe. Senza contare che ci sono categorie (anziani non autosufficienti o positivi al coronavirus) che di casa non possono o non potrebbero proprio uscire, costringendo quindi parenti o conoscenti ad uscire al posto loro.
Con tutti i cuochi, i camerieri, i pizzaioli e i ristoratori oggi bloccati a casa non sarebbe un problema organizzare servizi di questo genere, anche nei comuni più piccoli. L’importante è che questo servizio rientri fra quelli di prima necessità e sia regolato dallo Stato con convenzioni o prezzi imposti per i pranzi. Una sorta di delivery pubblico in cui i ristoratori si sostituiscono alle istituzioni che non potrebbero mai svolgere questo servizio in questo momento di totale emergenza. O là dove ci sono già servizi di assistenza agli anziani, integrarsi e potenziarli per le altre categorie oggi in difficoltà. Pensiamo anche alle famiglie con disabili.
Questa è la soluzione adottata ad esempio a Londra. Gli inglesi hanno tentennato per molto tempo. Fra irremovibile spirito di superiorità e iniziale volontà di non destinare troppe risorse a salvare vite umane “destinate a cadere in guerra”, il Governo di Sua maestà è stato fra gli ultimi ad ordinare la “chiusura” delle attività per garantire quel distanziamento sociale che sembra l’unica arma vera contro l’epidemia. Ma lo ha fatto con spirito pratico, invitando proprio i ristoranti a rifornire i cittadini direttamente in casa, così da evitare code ai supermercati e avere meno gente per strada.
Tornando a casa nostra, alcuni ristoranti (se autorizzati dalle istituzioni in tempi brevissimi) potrebbe anche consegnare prodotti alimentari, oltre che piatti pronti. C’è già chi lo fa, come la Braseria di Osio sotto (Bg) che porta a domicilio anche la carne. Sarebbe fra l’altro un’occasione per avere nuovi punti di approvvigionamento oltre ai supermercati, perché i ristoratori potrebbero rifornirsi ai Cash & Carry, comparto che oggi è di fatto inattivo perché lavora solo con clientela professionale, che oggi è chiusa. Tantè che non a caso il ministro Teresa Belladonna aveva proposto di aprire ai privati questi grandi supermercati all’ingrosso così da alleggerire un po’ la pressione su quelli per i consumatori.
L’mportante è che non ci si stia troppo a pensare. Se lo si può fare , si deve partire subito.