Mixology, come siamo messi in Italia? Il settore tra punti di forza e debolezze

Abbiamo contattato diversi protagonisti del mondo bar per farci spiegare come sta, oggi, il comparto della miscelazione di casa nostra. Cosa c'è di diverso rispetto al passato e rispetto al resto d'Europa? Barman, bar manager e giornalisti rispondono alle nostre domande e tracciano un identikit della mixology nazionale

14 agosto 2023 | 05:00
di Alessandro Creta

Come sta, oggi, il movimento della mixology italiana? Bene, anche se forse manca ancora qualcosa per il deciso salto di qualità. Non più con tutta questa verve, spinta e voglia di mostrarsi come forse lo è stato nel recente passato. Leggasi, una decina di anni fa. Con una rinnovata e necessaria attenzione a soddisfare le esigenze del cliente medio piuttosto che cercare di educare l’ospite attraverso una sorta di “imposizione” della propria filosofia, conoscenza e tecnica con cocktail troppo sofisticati, elaborati. Troppo distanti dalla concettualità, ma anche dal bisogno e la richiesta, di chi sta dall’altra parte del bancone.

Un movimento oggi caratterizzato da maggiore semplicità. Che non significa banalità, anzi, a supportare il tutto tanta tecnica, conoscenza della materia utilizzata, e consapevolezza di non aver dall’altra parte del bancone degli esperti (a differenza di molti Paesi esteri) ma, in fondo, persone che vogliono semplicemente bere qualcosa di buono e rilassarsi per qualche ora. Ciò in un contesto che comunque freme, è vivo, caratterizzato da un grande margine di crescita generale. È, In estrema sintesi certo, lo stato dell’arte del movimento mixology in Italia.

O perlomeno è quanto emerge dalle parole di barman e professionisti che questo mondo lo vivono dall’interno, lo respirano e lo toccano con mano. Chi meglio di loro, dopotutto, per tracciare un identikit di quell’arte che risponde al nome di miscelazione?

Mixology in Italia: less is more?

Tutto ruota, non c’è forse nemmeno bisogno di specificarlo, attorno alle esigenze del cliente. Dopotutto è lui a pagare gli stipendi e, di conseguenza, a decidere le sorti un locale. Ma questo forse lo si è capito un po' in ritardo. Un mondo a servizio dell’ospite, non il contrario: e probabilmente negli anni passati pare esser stato un po’ questo l’errore comune del settore. Il motore di tutto sembra esser stato il voler educare il cliente attraverso drink sofisticati, fini a sé stessi, a volte meri esercizi di stile, concettualmente non colti da chi è dall’altra parte del tavolo. Il mercato, e questo sembra esser stato capito negli ultimi anni, chiede drink meno alcolici, più di facile beva, pop. E questa esigenza bisogna soddisfare. Niente professoroni al di là del bancone spinti dalla voglia di “educare” il cliente, insegnare a bere e come si beve, condendo il tutto con inutili lectio magistralis su ingredienti provenienti da chissà quale angolo remoto del mondo, trattati con chissà quale tecnica di cui, di fatto, a pochi interessa. Non c'è bisogno di tutto questo, o perlomeno non è necessario in Italia. Più semplicità: less is more, come dicono quelli bravi. 

Una tendenza, questa, che dopotutto ultimamente la si sta riscontrando anche nel mondo food. I clienti sembrano sempre più indirizzati verso trattorie e osterie in cui, pur lavorando la materia prima a disposizione con le dovute attenzioni e necessarie accortezze, si propongono piatti sì meno sofisticati rispetto all’alta ristorazione, ma comunque appetibili, immediati, capaci di intercettare con più facilità il gusto degli ospiti. In cerca fuori dalle proprie case di un concept domestico, famigliare, non troppo formale.

Oggi un numero sempre crescente di appassionati o semplici curiosi si sta avvicinando al mondo della mixology: sia perché per certi versi il mondo della ristorazione risulta un po’ inflazionato, sia perché si cerca quasi una valvola di sfogo. La gente vuole svagarsi, divertirsi, socializzare senza formalità. Meglio con davanti un cocktail ben fatto, ben servito e adeguatamente presentato. Per tracciare una sorta di identikit dello stato dell’arte del movimento mixology di casa nostra abbiamo contattato alcuni bartender ed esperti del territorio nazionale. Ci hanno detto la loro sul settore che rappresentano e che, allo stesso tempo, ha una grande rappresentanza italiana a livello internazionale. Nessuno meglio di loro, che questo mondo lo vivono dall’interno, sono in grado di spiegarci “come sta” e “a che punto sta” il mondo della miscelazione dello Stivale.

Bernardo Ferro - Presidente A.B.I. Professional (Associazione Barmen Italiani)

«Indubbiamente l’Italia si sta avvicinando molto alle Capitali mondiali del beverage come New York o Londra. Ciò è reso possibile grazie anche alle possibilità degli addetti al settore di poter viaggiare molto di più rispetto al passato: quindi si apprendono nuove tecniche, si conoscono prodotti e oltre a colleghi, scambiandosi opinioni. Sicuramente sono un amante dell’evoluzione, apprezzo le nuove generazioni di mixologist ma in alcuni casi bisognerebbe correggere un po’ il tiro. Ho sempre avuto la fortuna di lavorare in grossi alberghi e locali di livello, dove l’attenzione principale è rivolta verso l’ospite, e mi rendo conto come in alcuni casi la tendenza sia cambiata, e si vuol dare importanza al bartender. Un po’ come avviene per gli chef. Su questo non sono molto d’accordo. Ho visto persone fantastiche, che fanno cose incredibili, ma spesso ci si dimentica delle basi. Non solo della conoscenza dei cocktail base del beverage italiano, ma anche delle regole base di servizio che vengono un po’ a mancare. Inutile servire drink con effetti scenici bellissimi quando poi c’è poca sostanza. Sono sicuramente a favore dell’evoluzione, dell’innovazione, pur senza dimenticare la base, la storia del nostro lavoro, ciò che è classico. Soprattutto inerente al servizio».

Vincenzo Pagliara - Laboratorio Folkloristico (Pomigliano d’Arco- NA) 

«Il mondo della miscelazione italiana negli ultimi anni si è molto uniformata al trend europeo e internazionale. Per quanto riguarda la presentazione dei drink sì va verso una filosofia più minimalista, con bicchieri semplici, nessuna forma particolare, le stesse garnish sono molto essenziali. Da questo punto di vista credo che l’Italia sia in linea con il trend degli altri Paesi. Più che sulla mixology o l’aspetto esteriore dei drink penso che a differenza dell’estero in Italia ci sia una ricerca forse troppo maniacale dell’ingrediente particolare, della fermentazione, cosa che in ambito europeo sta un po’ sparendo. Da noi molte volte troviamo troppi ingredienti all’interno del drink ma gli ultimi trend che sto vedendo a livello global ne presuppongono meno e una difficoltà nel loro bilanciamento probabilmente più elevata».

Leonardo Ciccarelli - giornalista di Cookist 

«Siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi ma la distanza si accorcia anno dopo anno. La nostra generazione di bartender sta rivoluzionando il modo di bere in Italia, e finalmente aggiungerei. La nostra storia non mente: siamo un popolo da vino e liquori e infatti con la Francia abbiamo in comune anche questa arretratezza. In questi Paesi si beve poco. Ci sono delle vette d'eccellenza ma rispetto a Spagna e soprattutto Inghilterra siamo indietro. Non parliamo poi dell'Asia, è un altro mondo. Sono fiducioso comunque, soprattutto se ci convinciamo a mettere le nostre peculiarità storiche all'interno dei bar: materia prima super e ospitalità. Se i bar portano il cliente al centro della scena e usano i prodotti della propria terra andiamo incontro a una mixology territoriale che potrebbe essere uno dei trend dell'immediato futuro. A tal proposito IL trend, scritto in maiuscolo, oggi è uno solo: il no alchool. Le motivazioni sono molteplici, quella più banale è la riduzione delle tasse per l'assenza di alcol su prodotti che hanno lo stesso prezzo dei "gemelli alcolici". C'è poi tutta la storia dell'healty che influisce tantissimo. Le aziende stanno cercando soluzioni per fare distillati senza alcol e senza zucchero, questo è il futuro. Nei prossimi menu una grossa fetta di spazio la dovranno avere gli analcolici perché questo dice la clientela. Altra tendenza, che abbiamo soprattutto in Italia, è quella al dolce: molti menu degli ultimi 2 anni si concentrano sui sapori dolci. Questo, detto tra noi, è un peccato perché l'appiattimento del gusto verso il dolce creerà una clientela che non sarà più in grado di apprezzare un vero Negroni, tanto per fare un esempio».

Nico Sacco - Wintergarden (Viterbo)

«Oggi il mondo della mixology, soprattutto in Italia, è calato molto rispetto al passato. Ma non perché non ci siano professionisti, ma perché negli ultimi 10 anni è stato pompato in maniera eclatante quando però la clientela media non era pronta a tutto ciò. Ricordiamo come i bartender italiani siano tra i più forti al mondo ma quelli veramente che parlano di mixology lavorano all’estero, a Londra o in Australia. La clientela media tutt’oggi non è pronta: se da una parte nella ristorazione c’è stato un ritorno di fiamma di trattorie e osterie, così nel nostro mondo c’è stato un riavvicinarsi allo street bar, dove si beve semplice, fresco, poco alcolico. Ciò è quello che la clientela vuole e quindi questo è il criterio che alla fine paga, perché intercetta la richiesta del pubblico. Il cliente non vuole più sentire tutti i nostri “racconti”, vuole venire al bar e bersi uno spritz, che tutti criticavano ma che è quello che oggi fa star bene le persone. Prima un cliente andava al bar una volta a settimana, quindi poteva starci che volesse bere qualcosa di più sofisticato, ma oggi il cliente medio, quello che paga gli stipendi, viene più volte a settimana. Secondo me è in atto un ritorno agli anni 80 e 90: pochi fronzoli e tanta sostanza. La mia miscelazione è fatta di 2 o 3 ingredienti, e quasi al 90% il terzo è un sodato, perché la gente vuole semplicità. Oggi non vale più la pena aprire un cocktail bar di altissimo livello, il quale magari non riesce a accompagnare ai drink anche del food all’altezza. Oggi in Italia conto appena 3 o 4 locali in cui si beve e mangia bene».

Riccardo Gambino - Smile (Roma)

«Credo che in Italia il movimento mixology stia affrontando quasi una fase calante. Dopo il Covid le persone hanno cercato una maggiore semplicità, un modo di andare al bar solo per il gusto di starci e non per bere drink che a volte erano solo esercizi di stile. Il più delle volte solo fini a sé stessi. Abbiamo vissuto questo boom della mixology una decina di anni fa e abbiamo cavalcato l’onda avendo la presunzione di voler educare le persone. L’errore è proprio qui: “educare" è una parola brutta in certe circostanze e forse abbiamo sbagliato in questo. Abbiamo voluto fin troppo che il cliente si adattasse a noi, ma forse sarebbe stato meglio il contrario. Oggi per me la gente ricerca semplicità, e vuole uscire di casa per sentirsi a casa in un altro posto. Credo che il futuro, per quel che riguarda l’Italia, è quello di fare dei drink più semplici, pop, che siano alla portata economica di tutti. Detto ciò con l’estero abbiamo un distacco dovuto a differenti possibilità economiche e culturali. In ogni grande bar del mondo c’è sempre un pizzico d’Italia: non è quindi l’estro italiano a soffrire il distacco rispetto ad altri Paesi, quanto il contesto vero e proprio a essere differente. Penso che al di là di questo ci sia un bel fermento e credo che da qui a poco nasceranno tanti piccoli bar nei quali ci si potrà divertire tanto». 

Fabio Fanni - Locale (Firenze)

«Penso che il movimento del bar In Italia sia in crescita: viaggiando dal Nord al Sud si possono trovare sempre più frequentemente dei bar interessanti, curati, che si focalizzano sulla ricerca di nuovi ingredienti, tecniche e concetti. Un movimento che prima si poteva trovare solo nelle grandi capitali adesso si sta sdoganando anche alle province. Magari siamo ancora indietro in confronto alle grandi capitali europee, ma in un generale credo che a differenza di altre nazioni il nostro movimento sia più sparso su tutta la penisola piuttosto che solo su un numero limitato di città. Per migliorare ulteriormente dovremmo valorizzare i nostri punti forti: l'ospitalità che fa parte della nostra natura e l'utilizzo e l’esaltazione di materia prima locale Italiana, visto che abbiamo una enorme ed interessante varietà di prodotti. Al Locale la clientela è giovane, che cerca la movida ed il divertimento per lo più, ma piano piano sempre più persone sono interessate al bere bene ed allo scoprire nuovi sapori ed esperienze. Oggi come oggi il bere è più svariato che mai. In Italia penso faccia ancora da padrone la formula aperitivo, quindi drink con un tenore alcolico non troppo elevato, di tendenza amaricante, che ti preparano al pasto».

Ernesto Molteni - Vicepresidente A.B.I Professional - Delphina Hotels & Resorts

«Oggi più che barman o mixologist il termine più corretto sarebbe bar chef, perché vengono utilizzate anche tecniche di cucina per realizzare alcuni preparati. La differenza con il passato sta anche qui. Purtroppo alcuni esponenti delle nuove generazioni puntano solo alla novità dimenticando la scuola classica e i suoi insegnamenti: tengono molto all’estetica non solo dei drink ma anche alla loro, con vestiari e stili particolari. L’errore sta proprio nel puntare solo sull’aspetto esteriore, poi ben vengano le nuove tecniche come l’affumicatura, o nuovi ingredienti come sciroppi aromatizzati, sono tutte cose positive perché il nostro è un settore in evoluzione, però non bisogna dimenticare la scuola classica. Bisogna anche ricordarsi dell’importanza dell’accoglienza, di uscire anche dal bancone e recarsi al tavolo, parlare al cliente, e non pensare solo a fare drink particolari. Ci sono fattori positivi sicuramente che danno qualcosa in più al settore, ma bisogna anche limare quelli negativi guardare più al contenuto di ciò che si fa».

Mattia Esposito - Misture Cocktail Bar (Napoli)

«Non penso che in Italia siamo al di sotto degli altri Paesi europei come qualità o conoscenze, siamo sempre stati noi ad avere quella marcia in più. Quello che ho notato di differente rispetto agli altri Paesi è l’utenza: altrove maggiormente abituata a bere, a stare nei bar, a dare importanza al bar stesso. Noto qua che ancora in tanti non danno tutta questa considerazione al bar, a volte non si rendono nemmeno conto di dove sono. Come italiani, come conoscenza della materia, non abbiamo niente da invidiare e la dimostrazione è che all’estero nei migliori bar ci siano sempre dei nostri connazionali. All’estero, rispetto a noi, l’utenza è più pretenziosa, conosce, sa, è più abituata a bere e ha un approccio all’alcol differente rispetto a qua. Noi viviamo di aperitivo, drink leggeri e più immediati, con piccola proposta di cibo, mentre all’estero si va al bar per bere solamente, e se si vuole mangiare si ordina dalla carta. Il futuro non si può prevedere, e con lui le tendenze del domani, perché è e sarà sempre l’utenza a dettare le regole e il bar, che è a tutti gli effetti un’azienda, non può negare al cliente ciò che cerca per dargli invece ciò che il bar stesso vuole che beva. Credo che al bar lo scopo principale sia far divertire, far stare bene il cliente, fargli vivere qualcosa di cui possa aver piacere e che lo porti a tornare».

Alfonso Califano - 50 Spirito Italiano (Pagani - Salerno)

«L’Italia è centrale e totalizzante nella cultura della miscelazione mondiale, per due ragioni. Abbiamo una grande tradizione in materia: partendo dalla distillazione, dai vermouth, da amari e infusi che poi sono stati la base della creazione dei cocktail. Fondamentale in tal senso anche la nostra cultura dell’ospitalità, fattori che oggi permettono come i più grandi bar del mondo siano in buona parte guidati o gestiti da italiani. L’Italia ha sicuramente un ruolo importante nella miscelazione attuale, ciò però ad oggi non si riscontra in un mercato interno così florido. I consumi dei cocktail in Italia non sono alla pari del resto del mondo, c’è una media di bevuta di molto inferiore rispetto alle altre nazioni europee e questo fa sì che avvengano due fenomeni. Da una parte le aziende di spirits investono molto meno nel nostro mercato, e ciò ci pone in una posizione di svantaggio nella creazione di nuove attivazioni. Dall’altro fa sì che ci sia una cultura di base inferiore rispetto all’estero. Il bevitore medio europeo conosce, sa di drink, più di quello italiano. C’è anche un altro punto, per me la problematica più seria. All’Italia è come se mancasse una generazione. I 30enni di oggi, che sono quelli che si stanno mettendo in gioco nel settore, sono “orfani” della protezione dei mentori. Manca una generazione prima di noi che abbia fatto crescere i nuovi giovani. Solo ora i trentenni, molti di ritorno da altri Paesi, cercano di essere mentori per i più giovani, ma è come se si fosse saltata una generazione. Se a Londra, Barcellona e Parigi i bartender che erano stati formati dai 2000 in avanti hanno iniziato ad aprire i loro bar dal 2005 al 2010, solo oggi in Italia la nuova generazione sta cercando di mettersi in gioco cercando di cambiare le regole. Quindi è un po’ come se avessimo 15 anni di svantaggio rispetto alle altre nazioni europee».

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Alberto Lupini


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