I cuochi in televisione sono un esempio professionale?
30 dicembre 2016 | 11:53
di Matteo Scibilia
Il sottoscritto ha esperienza di insegnamento sia di allievi del triennio superiore professionale, sia di giovani e adulti, spesso convinti o meglio suggestionati dalla tv che tre mesi di insegnamento serale siano sufficienti ad avviare una carriera di cuoco. Forse Gianni Morandi in questo caso ha ragione: “Uno su mille ce la fa”. Sacrificio, passione, studio, aggiornamento, curiosità, sono alcuni degli elementi necessari per avviarsi alla carriera di cuoco, ma spesso sono elementi che sia la scuola ma soprattutto l’esempio dei reality dedicati alla cucina non trasmettono.
Ormai i cuochi in tv non hanno neanche l’aspetto del cuoco vero, si vestono in maniera non adeguata, senza rispettare le regole dell’igiene, con vistosi orologi al polso che proprio quelle regole vieterebbero (ma naturalmente non quelle dello sponsor), senza cappelli, vero segno distintivo di un cuoco, con giacche colorate, spesso sono più showman che cuochi. Perché la professione non viene rispettata?
Tutto sembra terribilmente facile. Oggi vogliamo denunciare una situazione che in qualche maniera deve essere analizzata e riportata alla normalità: da un lato abbiamo migliaia di nuovi aspiranti cuochi attratti da una immagine televisiva, in mezzo la scuola che con molta difficoltà li forma, e dall’altro lato il mondo del lavoro che non riesce ad intercettare tutti questi giovani.
Ma in tutto questo ha una responsabilità la televisione? A nostro giudizio sì, anzi rileviamo un servilismo eccessivo da parte dei cuochi al volere delle produzioni televisive e degli sponsor, per nulla di insegnamento, anche se qualcuno potrà obbiettare che i programmi televisivi non hanno nelle proprie finalità l’insegnamento. Qualche spiffero in ogni caso comincia a trapelare, sembra che tutto sia costruito, tutto falso, tutto in funzione dello spettacolo, anche i commensali sono comparse.
Ma la verità è un’altra. Le cucine, anche le più piccole, sono ambienti gerarchicamente forti, c’è il cuoco patronne o l’executive chef, ci sono i secondi, gli aiuti, i commis, e via via fino al lavapiatti, e si chiamano “brigate”, termine di derivazione militaresca in cui si accentua la filiera di comando dall’ufficiale al soldato semplice, ma nonostante i vari livelli di responsabilità la brigata di cucina per ottenere grandi risultati, gastronomicamente parlando deve essere un gruppo, una squadra coesa ad un fine preciso, ognuno dei componenti, deve collaborare con tutta la brigata, deve mantenere il ruolo assegnato, ognuno in dipendenza dall’altro ma con uno scopo preciso.
Il piatto per il cliente, la ricetta, passa dall’ordine in cucina, dalla pulizia e dal lavaggio, al calcolo del food-cost, ad un magazzino sotto controllo, tutto questo porta ad un risultato vincente e tutti i componenti della cucina devono essere partecipi e attori. Già ma a propositivo di attori, i vari programmi televisivi, tutti nessuno escluso si rifanno ad un format unico, che sia “Il Grande Fratello”, “Uomini e Donne” , “L’Isola dei Famosi” o “MasterChef”, il fine è sempre lo stesso: io vinco e tu muori, sei escluso, sei eliminato, proprio il contrario di quello che succede in una brigata di cucina. Lo spettacolo richiede e prevede che il gruppo debba litigare, debba far emergere uno scontro sempre con lo stesso risultato, che qualcuno venga eliminato, che qualcuno perda.
Questo avviene, purtroppo, anche nei reality di cucina, l’obiettivo durante la gara è sempre lo stesso, ovvero la creazione artificiosa di gruppi che cucinano insieme con il solo scopo di suscitare invidie e gelosie che saranno utilizzate nelle fasi finali per determinare un solo vincitore, magari, forse il migliore. Ma un percorso simile potrebbe mai essere lo stesso interno ad un ambiente di lavoro? Ad una cucina vera? Può essere questo un metodo, una cultura da trasmettere ai giovani cuochi?
Nelle scuole invece si insegna che il gruppo vince, che la brigata è importante, che la competizione è una parte della vita, che competere spesso fa crescere e spesso fa crescere soprattutto chi perde. Tra parentesi, provengo da decenni di attività nel mondo della ristorazione, prima o poi racconterò cosa era il mondo della cucina 20/30 anni fa, quando Cracco e molti degli attuali grandi chef, lavoravano da Gualtiero Marchesi in Bonvesin de la Riva a Milano, della severità di Marchesi e di come erano le brigate all’epoca. Forse bisognerebbe ricominciare da lì.
Non si può delegare alla televisione un aspetto importante del futuro di tanti giovani. I grandi cuochi hanno un’enorme responsabilità, una responsabilità che il settore richiede, per un miglior futuro della nostra gastronomia. Sento forte la necessità che l’elite della ristorazione si fermi, che sia di riferimento vero alle migliaia di aspiranti cuochi, che sia esempio di professionalità, di storia e di cultura, pur firmando spot per pentole, cucine, bagni, pasta sfoglia industriale, cotechini precotti, catene di supermercati, patatine, orologi, vestiti, e diciamocela tutta, spesso prodotti di medio livello.
Una élite che in qualche maniera deve riconoscere che il suo successo è in parte frutto di centinaia di cuochi senza stelle e studi televisivi, che in silenzio operano e cucinano nei luoghi più sperduti del nostro Paese. C’è bisogno di un riequilibrio, di una attenzione alla ristorazione che vive ai margini dei riflettori, proprio perché il nuovo e giovane cuoco si possa sentire soddisfatto del cammino verso questa professione faticosa ma affascinante, affinché in qualche maniera la “gavetta” possa tornare ad essere un percorso visto come un fatto naturale e non necessariamente con una telecamera davanti.
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Alberto Lupini