Probabile che stia insorgendo un ennesimo caso di profezia che si autoavvera. Ci riferiamo alle autorevoli affermazioni, di certo frutto di attente analisi di scenario, secondo le quali la ristorazione di alta qualità, sbrigativamente etichettata con l'anglicismo “fine dining”, sia in crisi. Siamo di opposta opinione? Abbiamo, cioè, osservato scenario altro che ci induce in errore? Nulla di ciò. Solo che proviamo a dirla diversamente e pertanto asseriamo che la realtà della ristorazione (ma anche dell'hospitality) è talmente in evoluzione che pretendere di fare focus solo su una delle tre macrocategorie nelle quali, convenzionalmente, suddividiamo l'articolato scenario, è fuorviante. Probabilmente, non è in crisi il fine dining, bensì è obsoleta l'ottica con la quale si osservano i fenomeni. Non è la fotografia che è sfuocata, sono i nostri occhiali che probabilmente sono da cambiare.
La ristorazione fine dining è in crisi?
Innanzitutto, individuiamole queste tre macrocategorie che compongono l'articolato scenario della ristorazione. Partiamo dalla componente in presunta crisi, il cosiddetto fine dining. Con la label “fine dining” sta accadendo quanto accade tuttora con la parola “Nutella”: da marchio di prodotto del brand Ferrero a parola di uso comune per intendere crema spalmabile al cioccolato e nocciola. In questo caso la Ferrero della situazione è la Guida Michelin e pertanto nell'immaginario collettivo non soltanto degli addetti ai lavori ma anche dei gourmet, per fine dining si intendono i ristoranti stellati che sono in numero di 395. Attingendo anche alla Guida ai Ristoranti del Gambero Rosso e facendo pulizia di un notevole overlapping, perciò contando soltanto le Tre Forchette presenti sul Gambero ma non sulla Michelin, arriviamo a circa 460 ristoranti in grado di erogare “fine dining”. 460 ristoranti su un totale di circa 115mila ristoranti: quattro ristoranti “fine dining” ogni mille ristoranti... ai quali non ancora si è assegnata label, ma lo faremo.
Il fine dining è veramente in crisi?
Le considerazioni da fare su questi 460 ristoranti ci inducono ad affermare che costoro palesano “crisi apparente”. Da dove traggo indizi per dire che un ristorante è in crisi? Evidentemente dalla sala vuota o anche semivuota. Vero, ma si dimentica che nel caso degli stellati, soprattutto i tristellati e i bistellati, il business da gestione caratteristica sta tendenzialmente divenendo addirittura ancillare rispetto a revenue provenienti da consulenze, testimonial di prodotti, presenze televisive e quanto attiene alla ribalta mediatica. Inoltre, i più accorti tra i patron/chef stellati hanno creato o si accingono a creare degli spin-off: ad invarianza della qualità della pietanza, varia lo scenario di contorno inteso essenzialmente come servizio di sala e come ampiezza di offering. Il cliente gourmet che va a cena al ristorante stellato ne esce soddisfatto? Probabilmente non del tutto, probabilmente sì, quasi certamente, come sia, non è propenso (parliamo della maggioranza e non certo della totalità dei casi) a ripetere l'esperienza. Siamo quasi al "grazie, abbiamo già dato"!
Perché sovente accade ciò? I motivi prevalenti sono due: scontrino esagerato, disagio nel ruolo. Scontrino esagerato rispetto alla qualità complessiva percepita: ci sta! Ma cosa si intende per disagio nel ruolo? Probabilmente il cliente gourmet che va al ristorante stellato non intendeva assumere il ruolo del “fedele devoto” che si reca a Messa la domenica. Non credeva di assistere ad “officio” al cospetto del quale può solo tacere, estasiarsi, ascoltare il Verbo e fungere da spettatore pagante vessato anche da proposte (percorsi di degustazione) presentate pretenziosamente come “take or leave”, ovvero prendere o lasciare!
L'analisi "Swot" per comprendere e giudicare la ristorazione
Nei discorsi di attualità di questi giorni da parte di firme autorevoli della stampa di settore, brilla l'assenza di quella che doverosamente ha da farsi quando ci si cimenta in analisi di scenario: l'analisi Swot. L'analisi Swot (Strengths, weaknesses, opportunities, threats) analizza, della realtà in esame, quelli che sono i punti di forza (strengths), i punti di debolezza (weaknesses), le opportunità (opportunities) e le minacce (threats). Per opportuna snellezza espositiva, ci si impone di individuare un solo fattore (in genere ce ne sono almeno quattro) per ogni elemento Swot.
Per analizzare la ristorazione serve utilizzare il metodo Swot
Quindi, nel caso del “fine dining”, individuiamo come forza l'oggettiva alta qualità dei piatti che arrivano a tavola. La debolezza è data in prevalenza da quel disagio che sovente avverte il cliente, trattato più come spettatore di circo (ti stupisco con i miei numeri!) piuttosto che come spettatore di teatro (ti faccio vivere emozioni memorabili). L'opportunità sta nella celere e tempestiva creazione di spin-off che concorrano ad abbattere barriere all'ingresso. La minaccia sta nel veloce diffondersi, micidiale la veicolazione attraverso i social, che si paga tanto ma alla fine manco sappiamo cosa abbiamo mangiato, sebbene ce lo abbiamo compuntamente svelato!
La boring dining, la cena noiosa
Si è parlato di un totale di circa 115mila ristoranti. Forse è un errore; addirittura sembra che siano quasi il doppio. Scopriamo che, al netto di un'approssimazione inevitabile quando si ha a che fare con i grandi numeri, non si tratta di errore e lo si capisce adesso che trattiamo la seconda macrocategoria, ancora innominata, ovvero priva di sua label, a differenza dello sbandierato “fine dining”. Dunque, questa macrocategoria ha nome “boring dining”: la cena “noiosa”. Attenzione, “noiosa” assolutamente da non intendere come mediocre! Bensì la cena che non regala nuove emozioni, non lascia vivere nuove esperienze, non sorprende con inattese novità. Le solite cose: il solito menu, ovviamente articolato in antipasti, primi, secondi (talvolta anche contorni), dessert. La solita carta dei vini. Noiosa, ma anche confortevole per i clienti habitué che cercano carezze, magari svogliate, ma pur sempre bastevoli a farli sentire a loro agio. Ed è questa la macrocategoria in crisi!
La boring dining non regala nuove emozioni ed esperienze al cliente
Sovviene l'immagine forte figlia delle storiche emigrazioni oltreoceano dei primi decenni dello scorso secolo. Emigranti in terza classe, praticamente a ridosso della sala macchine (immaginiamoci l'ovattato silenzio e l'estrema pulizia degli ambienti) e praticamente in “galera” per come potevano salire sul ponte e respirare aria pura soltanto un'ora al giorno, quando i passeggeri di prima e seconda classe erano al ristorante. Ecco, appena saliti sul ponte, c'erano gli emigrati che andavano a poppa, a versare lacrime per la terra che avevano lasciato e che inesorabilmente si allontanava sempre di più, e c'erano gli emigranti che andavano a prua scrutando speranzosi i profili di quella che sarebbe diventato il loro nuovo ambiente. Insomma, in metafora permanendo, questo “boring dining” è erogato da “ristoratori di poppa”, in nostalgia perenne del bel tempo che fu quando ci poteva stare spazio, in era di vacche grasse, anche per quanti non avvertivano esigenza alcuna di captare gli early warning, quei segnali precoci atti a facilitare la lettura di cambiamenti imminenti. E poi ci si mise anche il Covid, ci si mise.
- La forza del “boring dining” è data, e non di paradosso trattasi, dal persistere dei “clienti di poppa” che apprezzano il “comfort” del “così era e così è”.
- La debolezza, e ancora non di paradosso trattasi, è che, per naturalità di flussi e per effervescenza di scenari sopravvenienti, questi “clienti di poppa” sono in irreversibile decremento tendenziale.
- L'opportunità che difficilmente verrà colta è quella dell'evolvere verso nuove modalità di fare ristorazione.
- La minaccia consiste nel non volere cogliere la necessità del cambiamento in ciò “agevolati” (!) dall'ignavia dei miei clienti.
L'emerging dining, la ristorazione emergente
La terza macrocategoria, forte di circa 105mila esercizi, la definiamo “emerging dining”: la ristorazione emergente. Fatta in prevalenza dalla generazione Y (Millennials) a beneficio dei loro coetanei e dei giovani della generazione Z. La ristorazione che nel chiedersi il “perché no” delle cose (piuttosto che i “perché”), ha rotto finalmente schemi resi obsoleti dai cambiamenti avvenuti nella società: non più le gabbie orarie del pranzo e della cena, bensì il cosiddetto all-day long, non più il menu con articolazione sclerotica di antipasti, primi, secondi, ecc, bensì "oggi c'è questo e questo e questo altro ancora e poi... per oggi basta così". Non più ricarichi eccessivi su vini pretenziosamente presentati e servizi, bensì buone etichette al calice a prezzi frutto di ricarichi onesti, con la conseguente efficiente rotazione della cantina. Non più camerieri svogliati che ignorano cosa stanno servendo, bensì personale giovane che sa cosa porta in tavola.
L'emerging dining ha rotto gli schemi della ristorazione
Che tipologia? Innanzitutto, pizzerie, ma attenzione, pizzerie i cui pizzaioli, sovente anche patron, hanno ben chiara la loro mission e sanno bene come non cadere né nella trappola del concorrere al titolo di migliore pizzeria dell'universo e se non proprio la migliore, comunque tra le prime 3.200 pizzerie del pianeta, né nella tentazione di accontentarsi della situazione attuale perché il cliente viene e ritorna pure. Siamo agli emigranti di prua, in tutta evidenza; ma qui sovviene, a supporto ulteriore, un'esortazione di un giovanotto che qualche successo lo ha conseguito e qualche soldino se lo è pure guadagnato. Parliamo di Bill Gates, il fondatore di Microsoft. Sistema operativo Windows 3.11. Domanda di Bill Gates agli sviluppatori: “Funziona?” Risposta: “Certo che sì, Bill, funziona !”. “Bene, e allora cambiatelo!”.
Ci sono i pizzaioli giovani, che hanno studiato onde assimilare la professione (e non il mestiere) di pizzaiolo/patron. Ci sono i patron dei tanti bistrot che erogano esperienze ghiotte e piacevoli. Ci sono tutti quelli che si sentono a loro agio nel leggere tempestivamente lo scenario che evolve. Ci sono quelli che, senza essere San Francesco, senza sentirsi dame di carità, bensì ben consapevoli della responsabilità sociale del ruolo che ricoprono, hanno capito una cosa davvero semplice: il mio obiettivo è rendere il migliore servizio al cliente, auspicabilmente domani meglio di oggi. Punto. Però, punto e a seguire: ne trarrò come conseguenza (e quindi conseguenza, non obiettivo) che nel mettermi ogni tanto le mani in tasca, vedo che ci sono i soldini, e neanche pochi! E tutto ciò dopo aver adempiuto agli obblighi fiscali, dopo aver pagato puntualmente i fornitori e puntualmente e congruamente i miei collaboratori.
- La forza dell'emerging dining: essere a proprio agio nel “nuovo”, essere pervasi da neofilia e non da neofobia.
- La debolezza: essere in mare magnum dove è facile essere indistinti tra soggetti non necessariamente, purtroppo, animati dalla stessa vision.
- L'opportunità: avere entusiasmo e correlata duttilità quanto mai opportuna nel saper virare agilmente verso una diversificazione veloce di offering.
- La minaccia: ritenersi “arrivati”, perdere la tensione al miglioramento continuo, non investire nel recruiting e nella formazione dei collaboratori.
Ultimo penny su cui scommettere: a perdere la scommessa si cade in indigenza tragica, a vincere la scommessa si risale la china e si vive nell'agio. Quest'ultimo penny lo scommetto sull'emerging dining. E con i soldi ricavati dalla scommessa vinta, mi reco dall'ottico per farmi cambiare gli occhiali.