I ristoranti nel dopo-coronavirus Più spazio e igiene, meno contatti

Riaprire non basterà: il settore dovrà adeguarsi a nuove direttive e nuove esigenze. Si ricorrerà alla cosiddetta “app economy” per evitare i contatti con i menu e i mezzi di pagamento . Da parte del ristoratore ci sarà anche l’obbligo di assicurare, rispetto a prima, un maggiore spazio tra un tavolo e l’altro

07 aprile 2020 | 07:30
di Vincenzo D’Antonio
Il dibattito, fertile e di certo utile, circa la riapertura dei ristoranti, sovente verte sul “quando”, di rado sul “come”, ovvero sulle modalità mediante le quali lato offerta e lato domanda diverranno nuovamente reciprocamente attrattivi. Insomma, la domanda scomoda che il ristoratore deve porsi è: «Ok, a momenti avrò la tanto agognata data certa di riapertura. Mi basterà oliare la serratura della porta d’ingresso della sala e quella della saracinesca del back-office, forse arrugginitesi nel periodo di chiusura, e ricominciare come se niente sia accaduto?». Evidentemente no. Non funzionerebbe, perché quella determinata dalla catastrofe del coronavirus è una situazione in “soluzione di continuità”. E di queste “soluzioni” (da intendere ovviamente nell’accezione di interruzioni, discontinuità rispetto al “pre-coronavirus”) qui ne tratteremo alcune.

Più spazio e meno contatti tra le persone. Saranno così i ristoranti alla riapertura?

La prima “soluzione” riguarda il concetto di igiene. L’igiene cessa di essere un diritto del cliente e un dovere del ristoratore. Diventa anche un obbligo del cliente e di conseguenza un diritto del ristoratore. Da decenni oramai, che la sala sia pulita, che i bagni siano puliti, che il personale di sala sia ben curato sono elementi che ricadono nella sfera della qualità attesa. La qualità attesa significa che non faccio salti di gioia nel constatare quanto per l’appunto mi attendo che ci sia, ma viceversa molto mi cruccerebbe, con le ovvie conseguenze, l’assenza di questi requisiti. In altre parole il cliente dice: «Tu ristoratore hai il dovere di farmi trovare tutto pulito, ma proprio tutto, le cose e le persone». Con la riapertura, il picchetto dell’igiene si eleva ulteriormente con alcune innovazioni. E soprattutto, ribadiamolo fortemente, prima della riapertura si sarà diligentemente e doverosamente ottemperato all’obbligo della sanificazione profonda di tutto il locale.

Vogliamo provare a simulare passo dopo passo la nostra esperienza al ristorante, fino al più piccolo dettaglio? Ecco, ci siamo. Siamo alla porta d’ingresso. Ad essa ci avviciniamo e senza toccare maniglia alcuna, la porta si apre. Non è il magico “apriti sesamo”. È molto pragmaticamente l’evidenza che nel ristorante hanno da essere in funzione ovunque le sliding doors, le porte che si aprono automaticamente senza che vi sia bisogno di azionare maniglie. Le maniglie sono un concentrato di microbi impressionante.


Sliding doors per evitare di toccare la maniglia

Stiamo entrando. Dove facciamo il primo passo? Su un tappetino che al solo calpestio delle scarpe nebulizza disinfettante. Avessi ombrello, immediatamente nel portaombrelli a cui ho facile ed immediata accessibilità. Abbiamo soprabiti. Assolutamente “vietato” de facto giungere in sala e in prossimità del tavolo assegnato con i soprabiti che invece lasciamo al guardaroba. Mai più coesistenza di soprabiti al tavolo, ripiegati che siano sulla sedia eventualmente libera, poggiati che siano sullo schienale della propria; assenza alle pareti di appendiabiti. Vano guardaroba propriamente allestito. Grucce ben distanziate, sostanze disinfettanti nebulizzate che agiscono nel vano attrezzato a guardaroba. Liquido disinfettante per le mani ben disponibile per il cliente.

Con le suole delle scarpe disinfettate, con i soprabiti lasciati al guardaroba e con eventuale ombrello lasciato nel portaombrelli, ci viene indicato dal maître o dal cameriere il tavolo assegnato. E cosa si fa, ci si avvicina al tavolo e si prende posto? No! È adesso corretto, in quel saldo tra igiene intesa come diritto e come dovere, che si vada prima al bagno. Sliding door, locale pulitissimo, nessun contatto né per il sapone, né per aprire il rubinetto, né ovviamente per chiuderlo. Per asciugarsi le mani, il getto di aria calda. Disinfettante disponibile. Eccoci adesso al tavolo, con questa solare sensazione di pulito ovunque.

Camerieri con guanti e mascherine. Diciamocela tutta: non sarà un bel vedere, probabilmente non indurrà all’allegria e non andrà a corroborare quei momenti godibili di convivialità che sono tra le concause della scelta del dine out. Dotazione di mascherine, ovviamente, anche alla brigata di cucina.


Pulizia accurata in sala come in cucina

Secondo rituale al quale si è tutti bene avvezzi, adesso dovrebbero arrivare voluminosi oggetti cartacei notoriamente denominati “menu” e “carta dei vini”. Ma perché? Perché ancora la carta? Non siamo nella società “paperless”? L’andirivieni di questi oggetti, pur nell’ambiente doverosamente igienico nel quale ci troviamo, è comunque occasione continua di contagio e già questa motivazione di per sé sarebbe più che bastevole per far cessare la loro presenza. Non stiamo affermando che nel ristorante del dopo coronavirus non ci saranno i menu e le carte dei vini, tutt’altro. Stiamo solo dicendo che non avranno sembianza di oggetti cartacei, bensì saranno servizi (non più oggetti) fruibili mediante il nostro smartphone. Si entra nel locale, il nostro smartphone è acceso e funzionante (quando mai lo teniamo spento?!) e mediante tecnologia beacon (basata sul bluetooth) l’app del ristorante ci riconosce presenti nel locale e ci abilita alla fruizione di tanti servizi. Tra questi, il menu e la carta dei vini. Con i nostri tempi, comprimendoli o dilatandoli a nostro piacimento perché mai dimentichiamo che se siamo al ristorante è per vivere una deliziosa esperienza cognitiva ed emozionale, addiveniamo alla scelta di cosa mangiare e cosa bere. Lo comunichiamo al maître o al cameriere; parte la comanda in cucina e... il flow lo conosciamo o presumiamo di conoscerlo. Insomma, tutto procede.

Nell’attesa cominciamo ad osservare meglio la mise en place. Oddio quanto è spartana! Ricordiamo quelle mise en place del pre-coronavirus, così doviziose: quattro calici, otto posate e via dicendo. Ora invece le posate arriveranno a tavola a tempo debito. I tavoli, maggiormente distanziati, non solo consentiranno un lavoro più agevole ai camerieri, ma consentiranno anche il transito di guéridon o tavolini simili, alcuni dei quali serviranno ad avvicinare le posate al tavolo. Posate prelevate in quell’istante dal loro contenitore asettico e poggiate al tavolo dal cameriere provvisto di guanti. I calici di volta in volta e così i pani e quant’altro occorrerà disporre e servire in funzione dei piatti e dei vini scelti. Si passa dal “predisporre in tempo anticipato” al “disporre just in time”. È commutazione non da poco.

Arriverà prima o poi il momento di chiedere il conto, altra ritualità alla quale siamo bene avvezzi. Qual era lo scenario del “prima”? Cameriere in andirivieni con il conto cartaceo nel saldaconto, il POS e la carta di credito, digitare il PIN sulla tastierina, riprendere la carta insieme alla ricevuta cartacea. Quante mani hanno toccato il saldaconto? E quanti polpastrelli hanno toccato la tastierina del POS? Suvvia, ora si paga mediante smartphone, anch’esso abilitato dall’app di cui si diceva prima. Tutto veloce, immediato e paperless e, cosa davvero importante adesso, anche “touchless”. Dopo un primo necessario rodaggio, al netto di idiosincrasie di qualche cliente poco avvezzo al nuovo che incalza, sarà codesta la prassi di gran lunga più gradita da tutti, a partire, ne siamo persuasi, proprio dai ristoratori.


Pagamento touchless

Siamo giunti a compimento della cena, viene pur l’ora di alzarsi da tavola, auspicabilmente ben lieti dell’esperienza vissuta. Guardaroba, non dimentichiamo eventualmente l’ombrello, senza tocco di maniglia la sliding door che si apre e ci si accomiata. Cosa accade adesso intorno al tavolo lasciato libero? Avete presente quando si sbarca dall’aereo e noi ancora sulla scaletta in uscita si osserva incuriositi il daffare degli addetti? Tutto lesto ma tutto meticoloso: procedure da osservare rigorosamente. E quindi si sbarazza, facendo transitare quanto necessario in una plonge (area lavaggio) che avrà anch’essa elevato i suoi standing di lavoro e il suo layout, mentre vengono smaltite altre cose ancora e ripristinata la fruibilità della postazione mediante pulizia accurata del tavolo, delle sedute, del pavimento.

Nel frattempo siamo tornati alle nostre case e toh, arriva una mail da parte del ristoratore. Ci ringrazia, ci ricorda a nostro beneficio cosa abbiamo mangiato e cosa abbiamo bevuto e ci ricorda la prossima Lto. Lto è acronimo che sta per “limited time offer”, offerte limitate nel tempo da intendere, sia ben chiaro, come esatto opposto dello sconto! L’agevolazione, “l’offerta” non consiste nell’applicare prezzo scontato. Lto consiste - evidente e interessante la commutazione paradigmatica - nel proporre “chicche rare” agli happy few che siano lesti nel cogliere l’opportunità offerta. Negli Usa, la si prenda come notazione di colore, all’acronimo Lto abbinano l’acronimo Fomo, che sta per “fear of missing out”, ovvero la paura di rimanere esclusi dalla Lto, il timore di non essere tra gli happy few.

Ecco cosa può fare un’app: ben più che rendere paperless menu e carta dei vini, un’app comporta avere i dati del cliente, disegnare il suo profilo, imbastire una relazione e coltivarla.


Tavoli più distanziati

Torniamo al tavolo. Quel tavolo che dista dal suo prossimo ben due metri. È la prossemica del dopo coronavirus e non ci resta che prenderne atto. Quale l’approccio del ristoratore a questa nuova allocazione dei tavoli che ad invarianza di layout significa perdere all’incirca la metà dei posti? C’è un approccio facile facile: atteggiarsi a vittima e piangersi addosso. Questi lamenti avrebbero senso se fosse vero il meccanismo secondo il quale perdere la metà dei posti a sedere comporta perdere la metà degli incassi. Ma palesemente così non è. Innanzitutto probabilmente sfugge al ristoratore che questa nuova prossemica ha due conseguenze positive. Prima conseguenza: in una situazione confortevole per i clienti al tavolo, con un vociare tollerabile e non assordante, con una privacy alquanto salvaguardata, probabilmente si resta volentieri qualche tempo in più al tavolo e magari si prende il dolce, il liquorino abbinato al dolce e poi magari il caffè. Si alza lo scontrino medio. Seconda conseguenza: proprio la privacy riconquistata agevola il ritorno al ristorante di quella clientela che se ne era allontanata a causa dell’impedimento a poter avere conversazioni necessitanti un minimo di riservatezza. Si pensi, ad esempio, ai pranzi e alle cene di lavoro.

Tuttavia, va detto, magari un decremento della numerica dei clienti ci sarà. Come si ovvia? Si ovvia abbattendo quella barriera fittizia a causa della quale ancora permane in molti ristoratori l’idea che take away e delivery siano faccenduole da pizzeria, rosticceria, trattoria di prossimità. E invece non è assolutamente vero. La tendenza era già in atto e la catastrofe del coronavirus l’ha solo velocizzata e resa manifestamente necessaria allo scopo di salvaguardare quote di reddito. Erogare il servizio di delivery (e di take away) è cosa non banalmente facile e certamente non può essere frutto di dilettantesca improvvisazione. Necessita di un robusto equipaggiamento di cucina, un set di packaging atto a garantire asetticità, agreement con terze parti e, soprattutto, pensate un po’, un’app ben funzionante. Idem dicasi per il take away. Cosa fa la delivery? La delivery porta il ristorante nelle case. Realtà quali Deliveroo, Glovo e Just Eat sono ben presenti nelle grandi e medie città e il rider comincia a costituire presenza abituale in determinate aree.


Delivery come risorsa

Sono delivery e take away da soli bastevoli a compensare il taglio del 50% dei posti in sala? Poniamo di no. E cosa altro ci si inventa? Semplice, abbattiamo un’altra barriera nociva, quella barriera a causa della quale si ritiene scolpito su pietra il comandamento che recita: «Non avrai altri orari di apertura al pubblico che non siano quelli del pranzo e della cena». Suvvia, sbrigliamo creatività e fantasia e approcciamoci, come da tanto tempo avviene altrove (negli Usa soprattutto) al ristorante Aao, “almost always open”, aperto quasi sempre.

Pranzo e cena rimangono i cardini quotidiani di un modo di estinguere in maniera soddisfacente l’insorgere di appetito. Le tempistiche del vivere quotidiano generano una domanda di fruizione di locali di ristoro ad elevato standing che, laddove non presidiati dai ristoranti, diventano ulteriore territorio di conquista da parte della Gdo. Parliamo pertanto, se non proprio della prima colazione, del brunch, oggetto ancora misterioso la cui domanda è già ben presente soprattutto nelle città medie e grandi. Parliamo di happy hour che sappiano avere contenuti di edutainment per i quali vi è domanda latente a fronte di offerta che non appaga. Si pensi, ed è solo un mero esempio, all’inserimento di cheese corner volti a rendere non banali i momenti preserali con abbandono del “prosecchino”, di per sé bevanda inesistente, e dei melanconici finger food di fattura industriale ammucchiati in ciotoline di ordinanza.


Sarà necessario allungare l'orario di apertura

Per un attimo lambendo l’universo delle pizzerie, si pensi ad un nuovo abito mentale del patron pizzaiolo che in determinate fasce orarie sappia e voglia servire i cosiddetti “fritti” non come piatto iniziale in attesa della pizza, bensì proprio come la proposta adatta, insieme con appropriato calice di vino, al suo modo originale di “fare” happy hour. E ancora si pensi, nelle fasce orarie successive al cosiddetto pranzo e alla cosiddetta cena, a proposte di dessert, in autonomia, ovvero non il dolce come closing del pasto completo, ma come momento a sé, con abbinato un buon passito o un buon rum o quant’altro possa esaltare la proposta. È facile far divenire il ristorante Aao? Assolutamente no. Però pensate a cosa accade a non farlo.

Può tutto quanto detto sin qui prescindere da un irrobustimento delle attuali conoscenze e delle attuali competenze? Risposta: NO. Posso, io ristoratore, fare ciò senza procedere ad una nuova ben fatta e seria formazione delle persone che lavorano con me? Risposta: assolutamente NO. Posso fare a meno della tecnologia abilitante, di essa divenendo fruitore consapevole? Risposta: NO. E posso, nello scenario che si prospetta, fare a meno di cadere nella trappola della sovraesposizione mediatica, esimermi dal partecipare a competizioni da sagra, a fatue comparsate, e posso finalmente evitare di ritenere che la comunicazione sui social significhi postare foto e ricevere “like” compiacenti? La risposta non è “puoi”, bensì DEVI!

In sintesi a concludere, serenamente affermiamo che qui non si tratta di recitare il “de profundis” alla ristorazione. Bensì l’esatto opposto, qui si tratta di prendere atto che il cambiamento cagionato dalla catastrofe del coronavirus chiude uno scenario oramai irrimediabilmente obsoleto e ne apre uno nuovo. La ristorazione, molto semplicemente, rinasce. Nasce nuovamente e, per definizione, nasce in situazione nuova con nuovi paradigmi di funzionamento e di sviluppo, accingendosi a voler essere nuovamente attrattiva verso nuovi clienti. I ristoratori di oggi saranno i ristoratori di domani, posto che sappiano e vogliano essere resilienti, ridondanti e connessi in rete nel mondo nuovo.

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Alberto Lupini


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