Il patron di Picco Rosso, catena giapponese di pizza italiana, viaggia in Italia per reperire prodotti agroalimentari di eccellenza. Di pizza abbiamo di recente scritto a fronte di survey su pizzerie italiane nel mondo.
Si parla di piccolo pianeta, il villaggio globale in rete, i traduttori automatici che smontano il flagello della Babele linguistica, la sana curiosità, ed ecco un episodio occorsoci che raccontiamo volentieri.
Prologo: un
pizzaiolo giapponese, dopo aver letto il summenzionato articolo, ci comunica che ha una grande esigenza, vuole approvvigionarsi di cibo italiano di alta qualità.
E questa è in breve la storia. E se è una storia, la affabuliamo e la facciamo cominciare così: “C’era una volta...”. Difatti, ahinoi, ci fu una volta un evento tragico e disastroso chiamato Seconda Guerra Mondiale. E c’era in Giappone un italiano di nome Giuseppe Donnaloia. Costui, alla fine del conflitto sul fronte nipponico, fu preso dagli americani e per sopravvivere disse, mentendo, che era pizzaiolo. Hic Rhodus, hic salta! Eh sì, a fronte di questa abilità sbandierata, si trattava di farle per davvero le pizze. E Donnaloia ci riuscì: estro, inventiva, la forza che interviene nelle situazioni disperate. I suoi meriti gli valsero anche l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana.
Aprì la sua prima pizzeria a Kobe, e siamo negli anni ’50 in un Giappone distrutto che trova con la tenacia del suo popolo la forza di risollevarsi. Attività a gonfie vele e passaggio generazionale su sponda locale. Imprenditori giapponesi innamorati della pizza e del sotteso emergente business, subentrano e siamo oggi alla terza generazione con
Takeshi Yumeji, patron della pizzeria Picco Rosso a Kobe.
Takeshi Yumeji e Toshio Demizu
Ed è Takeshi Yumeji che volentieri si racconta. Lo incontriamo a Napoli durante uno dei suoi viaggi resi necessari dall’esigenza che ha cagionato il contatto tra noi. La sua, chiariamo subito lo scenario, non è una pizzeria intesa come locale aperto al pubblico. Vorremmo dire, ci sia consentita la facezia terminologica, che la sua è una “fabbrica della pizza”, la più grande del Giappone.
È la pizza italiana più venduta nella Gdo giapponese. E gli ingredienti, ci piace ribadirlo, sono tutti italiani. Le dimensioni del disco di pizza sono inferiori a quelle nostre. Perché? Perché in Giappone è tutto più piccolo: le case, le stanze delle case, gli elettrodomestici nella piccola cucina. La pizza che produce Picco Rosso la si acquista nella Gdo e poi, una volta a casa è necessario il passaggio nel forno a microonde; ecco, ed anche il forno a microonde è piccolo! Tutto chiaro.
Affiancato dal suo direttore di produzione
Toshio Demizu, Takeshi palesa le sue difficoltà in anello a monte della filiera di produzione, ovvero l’acquisto e gli approvvigionamenti di food davvero made in Italy e non Italian sounding.
Nel suo viaggio in Italia si pone alla ricerca di eccellenze. Nella tappa campana si è posto alla ricerca delle acciughe di Cetara e della colatura di alici. Si è poi recato nell’agro sarnese nocerino per individuare fornitore di Pomodoro San Marzano Dop. Meticoloso il suo scouting anche per la Mozzarella di Bufala Campana Dop. Chicca tra le chicche, addirittura ha voluto assaggiare il Conciato Romano, formaggio sconosciuto ai più che viene prodotto in piccole quantità. L’anelito di Takeshi, ed è questo l’aspetto che auspichiamo solleciti attenzione da parte dei produttori del nostro agroalimentare di qualità, è quello di essere messo in condizioni facilitate per conoscere i produttori e che siano non insormontabili le problematiche connesse allo shipping ed alla logistica, con annesse le operazioni di saldo delle fatture di acquisto.
Ipotesi di scenario: website di e-business, insomma sorta di e-commerce b2b, dove siano presenti, prima ed innanzitutto per raccontarsi e poi eventualmente per lasciarsi comprare, le produzioni di eccellenza dell’agroalimentare. Non può essere vincente il website del singolo produttore, deve esserci un offering articolato dove l’assenza di overlapping è scaturimento naturale di agreement tra i soggetti fornitori. Acquisto in ottica “one shop” da parte dell’acquirente con un autentico “easy to buy”. Soluzioni di e-logistics e di shipping groupage e garanzia di avvenuti pagamenti.
Grazie alla tecnologia abilitante, lo scenario appena tratteggiato non è di difficoltosa attuazione. Si tratta di mettere insieme le giuste competenze. Ma si tratta anche di fare un’altra cosa, essa sì davvero difficile nel nostro contesto: attuare la trust economy, l’economia della fiducia.
Il caso Picco Rosso, ovvero il colosso giapponese messo in piedi da Takeshi Yumeji, è vivo, attuale, concreto, insomma esiste e grazie alla sensibilità di Takeshi Yumeji se ne viene a conoscenza. Ma riusciamo ad immaginare worldwide quante altre situazioni simili esistono nel mondo? Quanti potenziali clienti non si riescono a raggiungere perché a costoro non ci si rende sufficientemente visibili. Per quanti potenziali clienti ai quali ci si rende sufficientemente visibili, non si è sufficientemente attrattivi? E dove risiedono le cause dello scarso appealing atteso che è molto improbabile che esso sia nell’insufficiente qualità del prodotto? Un fattore è costituito dall’inadeguata capacità di sapersi raccontare, altro fattore può essere costituito da un costo complessivo cagionato non dal costo del prodotto in sé ma da sacche di inefficienza (le definiamo tali in epoca di tecnologia abilitante). Quali le inefficienze? Piuttosto che enumerarle, proviamo a ricondurle alla “madre di tutte le inefficienze” che è debolezza: ci piace essere solisti e non sappiamo cantare in coro. Insomma, il caso Picco Rosso, con il patron Takeshi Yumeji che viene a fare scouting in Italia, ci fa molto meditare.