Ristoranti e bar in crisi? A Milano (e non solo) più chiusure che aperture

In Brianza, nel 2022, solo 128 aperture contro le 367 chiusure. Situazione più allarmante a Milano: addio a 1.600 bar e ristoranti. Abbiamo parlato di questo fenomeno con Matteo Scibilia, ristoratore e membro di Fipe

19 dicembre 2023 | 12:00
di Alessandro Creta

Il 2022 ha segnato un periodo critico per il settore della ristorazione lombarda, in particolar modo a Monza, Brianza e Milano, con numeri che dipingono un quadro preoccupante della situazione economica dei bar e dei ristoranti locali. In generale, il numero di imprese attive nel settore della ristorazione sembra essere in contrazione. Un fenomeno che va oltre il puro cambiamento delle preferenze dei consumatori, coinvolgendo vari fattori che stanno mettendo a dura prova la tenuta degli esercizi. Il trend, se vogliamo chiamarlo così, è emerso in un primo momento a Milano (e provincia) per poi espandersi anche nelle zone limitrofe come, per esempio, Monza e Brianza.

Milano e Monza-Brianza: i numeri preoccupanti

In Brianza, nel corso del 2022, solo 128 nuove imprese si sono aggiunte al panorama culinario, mentre ben 367 hanno dovuto abbassare le saracinesche. Un dato che evidenzia un'inversione di tendenza, con la chiusura di locali che supera nettamente le nuove aperture. La situazione a Milano è ancora più allarmante, con i dati della Federazione Italiana Pubblici Esercizi (Fipe) che indicano la chiusura di 1.600 bar e ristoranti nel 2022, rispetto a soli 580 nuovi ingressi. Il saldo negativo di 1.020 mette in luce una crisi che potrebbe presto riversarsi anche sulla provincia.

Chiusure di ristoranti: i dati della Lombardia

Estendendo l'analisi a livello regionale i numeri amplificano il problema, con 4.521 cessazioni nel 2022 rispetto a soli 1.717 nuovi avvii. La forbice tra chiusure e aperture quindi si allarga ulteriormente, lasciando intravedere un trend preoccupante che potrebbe influenzare l'intero tessuto della ristorazione. Le cause di questo declino potrebbero essere molteplici, dalle difficoltà economiche generali agli impatti delle dinamiche attuali, passando anche per la questione personale, bollette e costi di gestione sempre più alti.

Cambiamenti nelle abitudini di consumo, la concorrenza crescente e le sfide operative potrebbero essere elementi chiave dietro questo scenario. Per capire qualcosa in più su questi dati, cercando di analizzare ulteriormente il trend, abbiamo contattato Matteo Scibilia, ristoratore con un locale a Milano e consigliere-dirigente di Epam-Fipe di Milano,Monza Brianza e Lodi, con delega alla tradizione e cucina del territorio.

Scibilia: «Più chiusure che aperture? Non necessariamente un male»

Questione chiusure in Lombardia? Per Matteo Scibilia il trend negativo non deve essere considerato, in via del tutto generale, un male necessario. Secondo il dirigente e consigliere di Epam-Fipe, infatti, riesce ad andare avanti chi davvero sa fare questo mestiere, in un settore in cui (è innegabile) il numero di esercizi pubblici di questo tipo risulta decisamente elevato. E per varie ragioni, come ci dice Scibilia «Da un lato dobbiamo considerare che, purtroppo, grazie ad alcune norme sia italiane sia europee che rendevano più agevole l’iter per aprire un pubblico esercizio come bar o ristoranti, il numero dei pubblici esercizi negli ultimi anni era aumentato in maniera considerevole, forse perché in tanti hanno pensato come fare da mangiare o gestire un esercizio del genere fosse semplice. In molti si sono avventurati ma il Covid ha spiazzato tutti, è stata effettuata una selezione, dovuta anche a un nuovo approccio del cliente verso la ristorazione. Un cliente più informato, più attento a ciò che mangia e beve, quindi più capace di scovare prima ed evitare poi determinati locali che non giudica adeguati».

Da oltre un anno a questa parte, in particolar modo nella fase di ripresa post Covid, si è parlato molto della questione personale. E della difficoltà delle imprese della ristorazione a trovarne: «Il personale è un altro tema. Il presidente di Fipe, Elio Stoppani, ci ha dato delle indicazioni durante l’ultimo direttivo. Il suggerimento è quello di iniziare ad attrezzarci su due fronti. Dobbiamo far fare, al di là di ciò che dice il contratto nazionale, due giorni di riposo la settimana a fronte dell’uno e mezzo previsto, e soprattutto cominciare ad assumere persone che facciano o il turno del giorno o della sera, non più turni interi. Anche perché la tendenza dei giovani è non fare più orario continuato. E questo dal punto di vista dei costi è più gravoso per il ristoratore, in quanto due turni separati si pagano di più rispetto a uno intero».

Scibilia: «Dobbiamo tornare a raccontare la professione»

«Altra cosa interessante, - aggiunge Matteo Scibilia - ci veniva indicato dalla Fipe come questa professione debba tornare a essere raccontata al cliente. Dobbiamo ricreare una narrazione nuova, attraendo così la clientela, e ciò significa dare più emozione col cibo, con gli ingredienti, saperli trasmettere anche a voce. Questo un po’ si è perso nel tempo. Da un lato oggi c’è la cucina stellata, o comunque più creativa della tradizionale, che ha assorbito dal punto di vista di immagine, della comunicazione, gran parte del pathos e della ristorazione italiana. Da un lato c’è una ristorazione della fascia media che in qualche maniera sta tentando di recuperare la tradizione, perché fare una buona pasta al pomodoro o una buona parmigiana di melanzane non è così semplice come potrebbe sembrare».

I numeri, anche alla luce di tutto ciò, parlano chiaro. Tanti ristoranti stanno chiudendo, sia per motivi numerici (e la già citata "selezione") ma anche per aspetti, per così dire, generazionali. «Come detto siamo in troppi, quindi è quasi fisiologico che in tanti si ritrovino a chiudere. Oggi è vero che in tanti cessano l'attività, ma per lo più lo fanno quelli che non sono in grado di fare ristorazione. Da un lato per noi addetti al settore più attenti questo è un bene, ma è un bene anche per il cliente, sempre più consapevole e informato, nonché attento, verso ciò che mangia. Quindi non si può prendere in giro: chi lo fa perde il cliente e, alla lunga, di conseguenza si ritrova a chiudere. Per di più tanti ristoranti tradizionali stanno affrontando un cambio di generazione, ma in non pochi casi i figli dei ristoratori fanno tutt'altro lavoro, e non se la sentono di prendere in mano l’impresa di famiglia. Che, in questo modo, o chiude oppure viene venduta a imprenditori esteri».

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Alberto Lupini


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