Home restaurant, quando la politica è strabica

23 gennaio 2017 | 11:29
di Alberto Lupini
C’è una contraddizione di fondo, un esempio tipico degli equivoci all’italiana, nella proposta di legge approvata dalla Camera dei deputati sugli home restaurant. Da un lato si vorrebbe circoscrivere il fenomeno a una sorta di hobby di qualche famiglia che potrebbe incassare fino a 5mila euro l’anno con un massimo di 500 coperti complessivi, ma dall’altra si parla di fenomeno imprenditoriale. E qui casca l’asino. O meglio, la politica italiana dimostra come al solito di volere accontentare tutti creando mostri giuridici.



Il social eating potrà anche essere un fenomeno che si sta diffondendo in tutta Europa, ma i sindacati della ristorazione, Fipe e Confesercenti in primo piano, hanno tutto il diritto di essere insoddisfatti e di parlare di nuovo colpo alla libera concorrenza. Sommessamente aggiungeremmo che forse avrebbero anche il dovere di alzare di più il tono, se vogliono realmente dare voce agli interessi di una marea di “veri” ristoratori che a breve potrebbero trovarsi concorrenti senza controlli e regole (definire blanda la legge in questione è un eufemismo), ma che la legge in qualche modo proteggerà e metterà sul mercato.

Le oltre 100mila imprese del settore (dalle trattorie di quartiere ai locali stellati) costituiscono un patrimonio per molti versi unico del nostro sistema di accoglienza e, facendo le giuste tare, rappresentano anche l’offerta più sicura di somministrazione di cibo in Europa, per le norme di sicurezza e di igiene a cui sono sottoposte e per la qualità media dei prodotti utilizzati. Nas invece che Asl, insieme ad un’altra ventina di soggetti controllori, sono i garanti di un sistema che ha per obiettivo proteggere il consumatore.

Niente di tutto questo (anche perché non ci sarebbero le risorse per farlo) sembra invece previsto per un esercito di home restaurant che potrebbe sbocciare, senza titoli professionali o garanzie igienico sanitarie, in ogni condominio, se non su ogni pianerottolo. Chi non ha in famiglia qualche chef autodidatta appassionato di MasterChef? E quanti di questi rinuncerebbero a mettersi alla prova, guadagnandosi magari anche quale euro? Per non parlare della possibile cresta su un pollo di batteria spacciato per uno di Brest o un pomodorino cinese messo in menu come Pachino. A evitare queste possibili truffe al ristorante ci pensano i controlli delle istituzioni, ma in casa della signora Maria di Saluzzo o dal Piero di Canicattì, chi farebbe gli accertamenti?

E non parliamo della quasi certezza di evasione fiscale. Siamo in Italia, non in Germania...

Non sorprende infine che a criticare la legge perché ritenuta troppo restrittiva sia la Confedilizia, un sindacato dei proprietari di casa sempre pronto a tifare per qualche condono immobiliare e che negli home restaurant (a conferma di come il fenomeno potrebbe essere dilagante) vede un’occasione per dare più valore a qualche immobile. Immaginiamo già i cartelli di vendita o affitto: “ampio quadrilocale, doppi servizi, terrazza panoramica al secondo piano di un lussuoso stabile dotato di rinomato home restaurant al 5° piano...”.

Di questo passo, invece di utilizzare i nostri migliori cuochi per promuovere il Made in Italy a Tavola, al Governo basterà usare le promozioni su Facebook degli apprendisti cuochi domestici. Che poi si compreranno anche un po’ di recensioni positive su TripAdvisor.

Una legge serve, ma che sia rigida e con sanzioni pesantissime. Sulla salute dei consumatori non si scherza. Checché ne pensino Gnammo o la Confedilizia.

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Alberto Lupini


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