È un quesito che, probabilmente, sarà balenato in testa a tutti coloro che si apprestavano per la prima volta a recarsi in un ristorante stellato. O perlomeno un ristorante di alta cucina. Come vestirsi? Cosa mettersi per non sembrare fuori luogo? Quale vestiario per non risultare eccessivamente sciatti, così come fin troppo inutilmente eleganti?
Un dubbio legittimo, levigato poi magari con l’esperienza e con altre eventuali visite in ristoranti di questo tipo. Un dubbio però comune, al punto da portare non pochi locali del genere (se non la stragrande maggioranza) a dedicare sul proprio sito una voce dedicata al cosiddetto dress code. Indicazioni, istituzioni, suggerimenti su come sarebbe più appropriato vestirsi per risultare in linea con l’ambiente in cui si sarebbero passate due tre ore a tavola. Insomma, istruzioni utili per non presentarsi in modo troppo casual, ma anche per evitare di risultare un pinguino. Qualche dritta in buona sostanza per risultare esteticamente coerenti con il locale in cui ci trova.
Come vestirsi per lo stellato? In tanti indicano uno stile smart casual
Dal post Covid in avanti certi vincoli sembrano essersi un po’ ammorbiditi: rimangono delle indicazioni di massima ma, cercando anche sul web, si nota come il più dei ristoranti stellati indichi un look smart casual: in poche parole curato, ma non troppo elegante. In alcuni indirizzi è caduto l’obbligo della giacca e della cravatta, permane invece quello del pantalone lungo (per gli uomini). Meno indicazioni per le donne: anche per loro niente pantaloni lunghi, ok alle scarpe aperte (a differenza degli uomini, basta non siano infradito) e per il resto basta un vestito adatto. Come ci ha detto Marco Reitano, maitre del tre stelle Michelin La Pergola a Roma, «Se il cliente arriva senza giacca ne abbiamo di nostre da prestargli, di qualsiasi misura… in un paio di casi è accaduto di dover prestare anche un paio di pantaloni lunghi dal nostro guardaroba dell’hotel!». Casi estremi che, comunque, viaggiano fuori dall'ordinario. A Casa Vissani, solo per fare un altro esempio, come ci dice Luca Vissani: «Da noi un certo tipo di dress code è previsto solo per il periodo estivo, non accettiamo pantaloni corti ed infradito, nemmeno le scarpe aperte per gli uomini. Ma per chi volesse venire nei mesi caldi in questo modo abbiamo comunque una sala dedicata più informale, per chi vuole fare un’esperienza di alta cucina in modo più snello e pop».
Ma se, tornando a parlare in senso generale, queste indicazioni non venissero rispettate? È capitato, e immaginiamo capiterà, come i responsabili di sala abbiano interdetto l’ingresso nel locale a chi si è presentato in modo eccessivamente sciatto, o comunque non consono ai ristorante in cui si sarebbe cenato (si parla, per lo più, di due o tre stelle Michelin). Ma una cosa simile è legittima e legale? Per legge un ristoratore può ‘discriminare’ un eventuale cliente per il modo in cui è vestito? Abbiamo chiesto un parere al team di Cena con Diritto, pagina curata da giuristi appassionati di diritto della ristorazione, come in determinati casi sì, può essere effettuata una sorta di ‘selezione’ all’ingresso.
Non ammettere clienti per il dress code? Cosa dice la legge
«Se fino a qualche anno fa i locali di alta ristorazione quasi ‘imponevano’ un determinato vestiario ai propri clienti, soprattutto uomini, come per esempio l’obbligo di giacca e cravatta, oggi questi vincoli si sono un po’ alleggeriti. Ma il dress code, se non adeguato, può permettere al ristoratore di non accogliere il cliente nel suo locale». In estrema sintesi il concetto espresso, ma proviamo a capirne qualcosa di più.
«Il Regolamento di esecuzione del TULPS (il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) prevede espressamente che "… Salvo quanto dispongono gli artt. 689 - somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente - e 691 del codice penale – somministrazione di bevande alcoliche a una persona in stato di manifesta ubriachezza -, gli esercenti non possono senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo”. Se il rifiuto di servire un cliente non è legittimo, può essere una contravvenzione il cui importo va da 516 a 3.098 euro».
«Per effetto di detta norma in mancanza di un motivo legittimo non è possibile rifiutare il servizio richiesto dal cliente; tuttavia, posto che tale motivo non è ad oggi in alcun modo definito, rimane tuttavia la necessità di verificare se il vestiario inadeguato può rientrare o meno in tale concetto. In linea generale, fermi restando i limiti del decoro e del buoncostume, l’outfit dell’avventore non può costituire legittimo motivo in forza del quale è consentito inibirgli l’ingresso, risultando altrimenti tale rifiuto esclusivamente discriminatorio».
«Resta tuttavia facoltà del titolare del locale, in base a generali principi di libertà organizzativa e di iniziativa economica garantita dall’art. 41 della Costituzione, stabilire limitazioni all’ingresso a clienti il cui abbigliamento non è ritenuto adeguato in relazione alla tipologia e all’immagine che lo stesso titolare vuole dare al proprio locale, a maggior ragione nelle ipotesi in cui la necessità di un determinato dress code quale condizione per accedere (es. serata con abito lungo per le signore) venga indicata all’entrata del locale o comunicata preventivamente con adeguati strumenti informativi... Se è vero che l’abbigliamento non è motivo legittimo per impedire l’ingresso, lo può diventare se reca disturbo agli altri clienti». Insomma, in un locale di lusso dove tutti sono vestiti in giacca e cravatta, il cliente non può pretendere di entrare vestito in pantaloncini e t-shirt in quanto inadeguato e irrispettoso per gli altri ospiti e il ristoratore stesso.
Matteo Zappile, responsabile di sala "Il Pagliaccio" (Rm): «Dress code? Il cliente ora vuole leggerezza»
Abbiamo parlato di dress code, istruzioni per l'outfit e ristorazione stellata con Matteo Zappile, responsabile di sala del ristorante Il Pagliaccio di Roma (due Stelle Michelin). Chi meglio di un maitre per farci dire cosa si giudica, valuta e richiede dall'altra parte del tavolo?
«Noi non imponiamo, ma suggeriamo comunque un determinato stile compatibilmente con il tipo di ristorante. Anche perché se non comunichi che c’è un dress code, il cliente fa quello che vuole. Allo stesso tempo però se gli dai un dress code troppo severo si spaventa. Deve esserci una via di mezzo: non imponiamo ai clienti di essere in tiro ma chiediamo almeno che si rispetti il luogo in cui sono. Prima del Covid era obbligatoria la giacca, e noi ne avevamo anche nel guardaroba eventualmente da prestare».
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«Dopo la pandemia non lo prevediamo più ma tassativamente non accettiamo pantaloncini corti, infradito, maglie a mezze maniche. Abbiamo preso questa decisione nel post Covid perché crediamo che le persone ora cerchino maggiore leggerezza dopo due anni difficili. Oggi la parola d’ordine è serenità».
«I clienti che arrivano da noi devono già rispettare delle regole, come per esempio accettare un menu alla cieca, e anche per questo non voglio mettere ulteriori restrizioni. Voglio che gli ospiti si sentano sereni. Anche il dress code per noi in sala è cambiato: il mio staff non porta più la cravatta, la tengo io solo perché sono il responsabile. Ai piedi per esempio abbiamo delle sneakers, lavoriamo in maniera molto più ‘tranquilla’ rispetto a prima. E questa serenità l’abbiamo voluta anche per i clienti, più a loro agio pur sempre nei dovuti confini. Io credo che i tempi siano ormai maturi per andare oltre il classico giacca e cravatta, ma a tutto ci deve essere un limite e questo limite si chiama buon senso».
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Alberto Lupini
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