Ha lavorato nei bar per 28 anni e di questi 21 li ha passati nello stesso posto di lavoro. In tutto questo periodo si è preso soltanto tre giorni di malattia. Antonio Moi, fin da giovanissimo ha fatto della sua professione la sua passione. Migliaia di clienti hanno sempre riconosciuto la sua professionalità e le sue doti, ma non i suoi datori di lavoro.
A dargli il colpo di grazia ci ha pensato la pandemia, quando dopo due anni di cassa integrazione gli è stata proposto il licenziamento e l'immediata riassunzione con un contratto di lavoro part time. A quel punto ha deciso di dire basta. Si è preso la disoccupazione e da allora ha dichiarato di aver ricevuto decine di proposte di lavoro, ma nessuna di queste è stata a suo dire seria e rispettosa della sua qualifica, della sua esperienza e del suo contratto di lavoro. Per questo motivo abbiamo deciso di raccontare la sua storia; altro esempio che racconta la crisi che sta vivendo il settore della ristorazione e dell'accoglienza.
Dopo 28 anni barista preferisce la disoccupazione
Antonio Moi, 48 anni, sardo, dal 1994 nel settore della ristorazione e in particolare dal 1996 da sempre al servizio dei bar, vanta una carriera quasi trentennale. Da quando ha cominciato ha cambiato pochissimi posti di lavoro, ha sempre preferito le occupazioni a tempo indeterminato e rifiutato sistematicamente gli impieghi da stagionale. «Non fanno per me - ha detto - Io cerco fin da subito in tutti i modi di fare in modo che il cliente che per la prima volta entra nel mio locale possa poi tornarci tutti i giorni. Invece con i turisti questo legame si spezza dopo una settimana o al massimo due, perchè poi se ne vanno».
Come mai hai perso il lavoro?
Lavoravo in un bar che serviva un polo universitario. Avevo quindi la domenica di chiusura e non lavoravo al massimo più di 42 ore settimanali. Poi è arrivata la pandemia e il conseguente lockdown e quindi sono stato messo per due anni in cassa integrazione. Al termine del sussidio sono stato posto davanti a una scelta. Essere licenziato per essere subito riassunto, ma con un orario di lavoro ridotto, oppure rimanere a casa. Ho preferito la seconda opzione piuttosto che lavorare per sole 800 euro al mese. Avrei infatti sgobbato per le stesse ore che facevo prima, ma con una retribuzione inferiore. Ho provato comunque a raggiungere un compromesso, ma vedendo che il proprietario era fermo sulle sue decisioni ho deciso per il licenziamento.
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Dopodiché cosa è successo?
Ho iniziato dopo qualche tempo a percepire la Naspi (l'indennità mensile di disoccupazione) e a guardami in giro.
Sono arrivate altre offerte di lavoro?
Si, ma purtroppo si sono rivelate tutte poco serie e irrispettose della mia esperienza e del contratto di lavoro.
Come mai?
Nessuno finora ha mai voluto riconoscere in busta paga, la mia esperienza e la professionalità acquisite in questi 28 anni. Pretendono lavoratori esperti e poi li vogliono retribuire come se fossero dei nuovi assunti. È un'ingiustizia. Ti propongono poi di lavorare 50 ore la settimana con una retribuzione di 1.200 euro netti al mese, venendo impiegato anche la domenica. Mi chiedo se qualcuno in altre professioni accetterebbe mai un impiego del genere. Per forza poi la gente fugge da questo settore e cerca occupazioni più stabili e maggiormente retribuite altrove. Ma non solo, la proposta è sempre la stessa, ti dicono: "prima ci conosciamo, vediamo come va e poi si parla di contratto". Anche questo comportamento è inaccettabile soprattutto nei confronti di una persona con quasi 30 anni di esperienza nel settore. Infine, cercano soltanto stagionali, non c'è mai nessuno che dopo i tre mesi ti prospetti un'assunzione a tempo indeterminato.
Quindi la colpa della crisi non è imputabile al Reddito di cittadinanza?
No, e non è nemmeno colpa dei giovani che non hanno più voglia di lavorare. Semplicemente si è superato il limite, nessuno accetta più di lavorare con contratti di lavoro poco seri dove non si riconoscono le qualifiche e gli anni di esperienza.
Come si esce da questa situazione?
Di questa crisi sento parlare soltanto gli imprenditori. Invece dovrebbero farlo anche i dipendenti. Dovrebbero raccontare le loro esperienze, fare emergere queste situazioni di disagio e di criticità, opporsi ai contratti "farlocchi" e lottare per i propri diritti, come ho fatto io che mi sono rivolto a un sindacato.
Cosa rischia il settore se non si raddrizza la china?
L'impoverimento e la perdita di competenze. I veterani come me lasceranno il bancone e saranno sostituiti da ragazzini poco o per niente formati. La qualità del lavoro peggiorerà sicuramente e alla fine tutti dal cliente, al titolare finiranno penalizzati.
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Alberto Lupini
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