Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati entro il 2050 tra 200 e 250 milioni di persone si sposteranno per cause legate al cambiamento climatico. Non solo il Climate Change mette a rischio il nostro sistema agricolo e produttivo: i conflitti cambiano la geografia economica ponendo al centro la questione dell'autosufficienza alimentare in molte parti del mondo. Riscoprire i modelli agricoli tradizionali, maggiormente resilienti e sostenibili sia dal punto di vista ambientale sia sociale, è oggi più che mai un'urgenza. Se ne è parlato a Firenze, nell'ambito del convegno “Tradizione per la Transizione: l'agricoltura della resilienza”.
L'agricoltura resiliente 'salverà' l'uomo dal cambiamento climatico?
Agricoltura resiliente: la soluzione per “adattarsi” al cambiamento climatico
Agricoltura non più intesa prettamente come vittima del cambiamento climatico, ma come possibile soluzione per "resistergli" e adattarsi al clima sempre più incerto? Il prof. Mauro Agnoletti (titolare cattedra Unesco sui Paesaggi Agricoli) ha presieduto la giornata conclusiva di un progetto lungo 4 anni che ha coinvolto Fao, Unesco, Università di Firenze e territori in tutto il mondo per studiare modelli di agricoltura resiliente in grado di resistere alla trasformazione del clima e al contempo garantire il mantenimento economico, sociale e delle culture locali in diverse parti del mondo.
Mauro Agnoletti, professore all'Università di Firenze
In anteprima e a questo proposito abbiamo parlato con il professor Agnoletti, discutendo di come l'agricoltura, oggi, per sopravvivere e adattarsi al cambiamento climatico vada necessariamente pensata in un modo differente, pur guardando al passato dell'uomo. Diversificare le culture, riuscire a essere quanto meno dipendenti possibile dall'acqua (la crisi idrica è di stretta attualità), riducendo le rese per ettaro e al contempo aumentando la qualità dei prodotti. E come chiave di volta definitiva, forse, il modello agricolo andrebbe completamente riadattato, basandosi su quei modelli già esistenti da secoli che hanno permesso nelle zone più ostiche del mondo di coltivare in modo resiliente, adattandosi a climi già estremi e condizioni difficili.
Prof. Agnoletti: «Distinguere i vari modelli di agricoltura»
Professore, partiamo dal tema centrale. Che ruolo può avere l'agricoltura nel salvare ambiente?
«Ci sono diversi modelli di agricoltura: c'è quella intensiva e industriale che necessita molti input energetici esterni come irrigazione, concimazione, diserbanti ecc. Questa agricoltura ha raddoppiato, in qualche caso anche triplicato, le rese per ettaro ma dall'altra parte sconta un costo ambientale importante, perché questi input energetici pesano molto in termini di produzione di Co2 e riscaldamento climatico. È evidente che il modello attuale di agricoltura porterà una riduzione della disponibilità di acqua, anzi già lo sta facendo, e avendo bisogno di grandi quantità idriche è il modello al contempo più produttivo ma anche più fragile. Proprio perché per poter massimizzare la produzione per ettaro necessitano di input che non saranno più disponibili».
Terrazzamenti in Valtellina
A questo punto qual è l'alternativa?
«Questo tipo di agricoltura funziona solo nel 30% del territorio mondiale, in Italia siamo sul 25%. Tutto il resto sono agricolture, rimanendo nel nostro Paese, di collina e montagna. In queste zone quel tipo di agricoltura “intensiva” ovviamente non ha funzionato quindi il risultato è che abbiamo avuto un grande spopolamento e conseguente abbandono dell'agricoltura, per un totale di circa 10 milioni di ettari di aree spopolate dalla II guerra mondiale in poi. Tutto ciò non solo ha dimezzato la nostra area coltivata, ma anche provocato forti ondate migratorie esterne ed interne, con crisi politiche che ne conseguono. Le agricolture situate in zone collinari o montane hanno altri pregi: producono sicuramente meno ma la qualità è maggiore. Per parlare di grano, quello coltivato in queste zone è migliore dal punto di vista vitaminico, ha un più basso contenuto di glutine, e sono agricolture che possono sopravvivere senza i costanti input energetici di cui abbiamo parlato prima. Senza meccanizzazione, senza chimica, sono culture da secoli abituate a condizioni ambientali difficili e mutevoli. Se vogliamo estendere lo sguardo a livello globale, vediamo come questi sistemi agricoli tradizionali, impiegando pratiche e conoscenze di tipo locale sono il risultato dell'adattamento di popoli diversi, in ambienti e climi diversi, a situazioni che richiedevano anche una certa creatività e resilienza per potersi adattare al territorio. Il terrazzamento in pietra a secco in Valtellina o nelle Cinque Terre, in montagna, ne è solo un esempio».
Agricoltura, fondamentale anche per il paesaggio
Anche perché non si può calcolare il valore dell'agricoltura esclusivamente dalla sua produttività, bisogna anche considerare il suo valore in riferimento al territorio, alla sua biodiversità, anche alla sua bellezza paesaggistica se vogliamo. E qui è anche una questione di turismo...
«Esatto, quello che va considerato non è solo l'agricoltura di per sé, ma anche il suo contributo al paesaggio a 360 gradi, non limitatamente alla sua produzione per ettaro. In Italia possiamo legare un prodotto di qualità ed eccellenza, al suo territorio di riferimento: pensiamo al Parmigiano, ce l'abbiamo solo noi, lo esportiamo, viene imitato e mi chiedo quanti consumatori riescano effettivamente a distinguere l'originale dal Parmesan. Però vedendo le colline sopra a Reggio, vedendo le mucche al pascolo, vedendo il lavoro dei produttori, si capisce tutto il valore intrinseco che quel prodotto ha, inscindibile dal territorio in cui si realizza. È un rapporto tra luogo e prodotto di cui in Italia possiamo farci forza in tantissimi casi: è un valore aggiunto non replicabile altrove. E ne beneficia anche il turismo».
Un'oasi in Egitto
Negli ultimi anni l'agricoltura adattata al cambiamento climatico. Il caso della Sicilia in cui vengono coltivati avocadi ne è un esempio. Sembra che con l'aumento delle temperature al Sud a rischiare siano coltivazioni come viti e ulivi. Dalla vostra ricerca a livello globale cosa è emerso?
«Ci sono delle analogie nel senso che alcuni sistemi agricoli sono in crisi a causa del cambiamento climatico. In zone in cui si coltivavano certe cose in futuro non sarà più possibile farlo. Con la nostra ricerca abbiamo individuato 40 siti in giro per il mondo in cui, nonostante il cambiamento climatico, l'agricoltura si è dimostrata resiliente e adattabile. Magari è meno produttiva ma comunque è capace di resistere: le oasi ne sono un esempio, in grado di resistere grazie e nonostante quantità di acqua minime, ma in cui si coltiva praticamente di tutto. Quello della Sicilia è un caso emblematico: il cambiamento climatico ha spostato le produzioni verso nuove culture, ma non è detto che sia necessario abbandonare le vecchie. La Regione in passato era il granaio d'Italia: il grano può ancora essere coltivato, magari non con rese di 45 quintali per ettaro ma comunque 20. È importate creare una filiera in cui questo grano, qualitativamente superiore rispetto a quello che importiamo, abbia un compratore. E qui si tratta di convincere il pubblico che quel grano, che costa di più magari, però ha dei vantaggi. In questo senso serveun'opera di educazione al pubblico».
Agricoltura resiliente: la soluzione già la conosciamo?
Se non dovessimo frenare l'aumento delle temperature, in Italia nei prossimi anni quali produzioni potremmo rischiare maggiormente?
«Non vedo situazioni, almeno al momento, in cui non si potrà più non coltivare. Ci sarà un calo delle rese: il tema è come abituarsi a dimezzare la produzione, perché la carenza di acqua diventerà determinante così come l'aumento delle temperature. Avremmo una variazione della tipologia dei prodotti verso quelli più compatibili con le alte temperature. Più che di sopravvivenza, comunque, il problema che si pone all'orizzonte è di natura quantitativa, di capacità produttive. Anche perché la popolazione mondiale è in continua crescita…»
Isole di fango in una zona lacustre in Myanmar
In futuro cosa potrebbe aspettarci?
«Avremo difetti di pianificazione per il futuro. Quello che abbiamo cercato di fare con questo progetto è cercare di prepararci, capire quello che succederà. La Fao ha fatto una proiezione a livello mondiale cercando di capire come cautelarsi, cercando di capire come si sono adattati gli uomini in condizioni difficili a fare agricoltura, a coltivare in ambienti ostili. Pensare che in zone lacustri in Birmania o Myanmar, dove differentemente da noi c'è abbondanza di acqua e carenza di terra, da tempo utilizzano delle isolette di fango sulle quali coltivare. Chissà che in futuro, con l'innalzamento delle acque, questa strategia non possa servire anche altrove. Al contrario, come anticipato, nel deserto ha funzionato il sistema delle oasi, e le popolazioni locali hanno imparato a sopravvivere grazie a loro».
Quindi per andare avanti, per adattarsi al cambiamento climatico, la soluzione è guardare a tecniche e strategie che già esistono in certe zone del mondo e vengono usate da tempo, riuscendo ad adattarle ai tempi e ai luoghi?
«Uso le parole del Commissario Europeo dell'Agricoltura, il polacco Wojciechowski, usate in occasione di un convegno a Firenze lo scorso maggio. Alla domanda su quale potrebbe essere il ruolo dell'innovazione tecnologica in agricoltura in questo contesto climatico ha detto: “Penso che oggi parlare di innovazione voglia dire tornare a pratiche agricole tradizionali, forse meno produttive ma molto più resilienti”. La Fao a questo proposito ha una posizione chiara: non dice che questi sistemi debbano rimanere immobili, ma sono uno spunto dal quale imparare, possibilmente innovandole e interpretandole per poter rispondere a queste crisi climatiche».