Da un lato si sono almeno 50mila fra bar e ristoranti che nelle prossime settimane, visti i debiti con banche, fornitori e fisco, rischiano di non riaprire e di andare in fallimento. Dall’altro c’è un sistema che secondo i calcoli della Cerved già dovrà sopportare un raddoppio dal 4-5% al 10% del tasso di fallimenti (previsione dell’amministratore delegato Andrea Mignanelli). Al di là del disastro sanitario, è questo uno dei più terribili effetti che la pandemia scatenerà sul piano economico. Per restare ai solo pubblici esercizi si parla di almeno 300mila disoccupati e di decine di migliaia di esercenti che non potrebbero avviare altre attività perché “falliti”, non già per incapacità (alcuni magari anche) ma perché costretti a chiudere dallo Stato.
Roba da tempi di guerra, serve un fondo chiusure a causa del Covid
Una situazione realmente da tempi di guerra e che richiede interventi urgenti per gestire con i minori danni possibili questo abbassamento delle serrande. E proprio per cercare di rallentare questo aumento, la Fipe è scesa in campo con la proposta di un “accompagnamento” di queste imprese con aiuti economici e con norme che sterilizzino alcuni degli effetti più negativi. L’idea è quella di un mega provvedimento che garantisca un futuro ad imprenditori e dipendenti che saranno obbligati a chiudere: un “Fondo chiusura delle imprese a causa Covid”, a cui collegare nuove norme sulle crisi di impresa per preservare il futuro imprenditoriale di migliaia di persone che altrimenti si ritroveranno impossibilitati ad operare a causa di un evento del tutto esterno ed imprevedibile.
Già l'8% dei pubblici esercizi non ha riaperto dopo il primo lock down
D’altra parte. va ricordato come in molti non ce l’abbiano fatta già oggi: nei primi due trimestri del 2020 hanno cessato l’attività oltre 12.500 imprese e il saldo tra aperture e chiusure era stato negativo per 7.865 unità. A preoccupare non è tanto chi ha gettato la spugna, ma chi non ci ha nemmeno provato nonostante avesse dei progetti: la nascita di nuove imprese, quelle cioè che avrebbero dovuto trainare il settore e l’occupazione, è passata dalle oltre 7mila del 2019 a 4.719 nel 2020 nello stesso periodo. In estate, finito il lockdown l’8% dei pubblici esercizi non ha riaperto l’attività, soprattutto nelle grandi aree metropolitane dell’Italia.
50mila imprese non riusciranno a sostenere la crisi
È da qui che parte Roberto Calugi, direttore generale della Federazione dei pubblici esercizi: «Non è azzardato calcolare che almeno 50mila imprese siano a rischio di chiusura perché non riusciranno a sostenere i costi economici della crisi. È verosimilmente che la maggioranza di questi casi porterà ad un processo fallimentare con le ben note conseguenze sulla rete dei fornitori, sui dipendenti e sulla stessa affidabilità degli imprenditori coinvolti».
La Fipe vuole distinguere la vita dell'impresa da quella dell'imprenditore
Il punto su cui lavorare, secondo la proposta della Fipe, è di poter “distinguere” la vita dell’impresa da quella dell’imprenditore. Con la doverosa esclusione di fenomeni patologici (di esercenti impreparati ce ne sono, purtroppo, a causa di una folle liberalizzazione che aveva spalancato l’accesso a tutti…). Per questo, aggiunge Calugi «va predisposto un fondo destinato a mitigare gli effetti sull’indotto e sui lavoratori coinvolti dal prevedibile fallimento di migliaia di imprese. Un “Fondo chiusura delle imprese a causa Covid”, che mitighi l’effetto a catena sull’indotto di una serie di fallimenti che saranno inevitabili». Soldi, va ricordato, che in caso contrario andrebbero comunque spesi per sostenere una massa enorme di disoccupati.
Roberto Calugi
Ma al tempo stesso bisogna intervenire sulla legislazione della crisi di impresa per preservare il futuro imprenditoriale di migliaia di persone che altrimenti sarebbero come ricordato fuori gioco per cause straordinarie e non addebitabili a loro comportanti sbagliati.
Forse uno spiraglio fra i progetti del Governo
Proposte che forse potrebbero anche trovare una risposta positiva dal governo visto che sembra in arrivo un nuovointervento a sostegno della liquidità delle aziende. Si parla anche di un rinvio delle scadenze fiscali, specie per quelle attività costrette a chiudere per un periodo più o meno lungo. Ma tutto questo potrebbe non bastare, vista la durata della pandemia e degli effetti a cascata che si generano sul sistema economico. Per questo la Fipe chiede una revisione della revisione delle procedure fallimentari. Bloccare i fallimenti, che possono avere anche implicazioni penali oltre che civili, non possibile. Nel caso di bar e ristoranti bisogna ad esempio genere conto anche degli interessi dei fornitori, che a loro volta potrebbero fallire per i mancati pagamenti dei primi…
La proposta: allungare i tempi per i piani di risanamento
Ciò che si può forse fare, ed è il senso della proposta della Fipe, è allungare i tempi per dei piani di risanamento o rilancio. Anche grazie ad un fondo finanziario ad hoc. Alla fine, uscire dalla crisi sarebbe più vantaggioso per tutti, a partire dallo Stato. E un’apertura in questa direzione è venuta nei giorni scorsi dal viceministro dell’Economia, Laura Castelli, che ha preannunciato «un pacchetto di norme per dare alle imprese più tempo per riorganizzarsi, fare piani di risanamento e concordati con più tempo». E ne ha spiegato così la ragione: «Non bastano norme che danno solo liquidità, ma bisogna anche dare più tempo o rischiamo di disperdere risorse più importanti». C’è solo da sperare che il terzo decreto “ristori” di cui si parla in questi giorni, possa prevedere, oltre ai soldi, anche un pacchetto «salva imprese». Un salva imprese che avrebbe vantaggi sul piano sociale (evitare disoccupazione) sostenmendo allo stesso tempo tutta la filiera agroalimentare che altrimenti perderebbe una quota rilevante di mercato.