La paura (ingiustificata) che allontana molti clienti dai ristoranti. L’assenza di turisti stranieri. E soprattutto il lockdown che tiene in casa milioni di impiegati (per lo più statali e bancari). Stritolati da questi fattori negativi
molti ristoranti italiani rischiano la chiusura. Le conseguenze non sarebbero nefaste solo a livello aziendale. Ci sarebbero drammatiche conseguenze come la perdita del lavoro per molti cuochi e camerieri e danni incalcolabili sulla filiera agroalimentare e sull’indotto. E tutto ciò senza considerare la
perdita di un elemento strategico del nostro sistema turistico.
Ce n’è abbastanza per parlare senza retorica di “allarme rosso” per un comparto che pure è perno e fattore strategico del nostro turismo, nonché elemento prioritario dell’immagine nel mondo del nostro stile di vita. Eppure, sembra che alla politica italiana tutto questo interessi poco. La Francia ha varato un maxi piano di sostegno per i ristoranti (fra i simboli del Paese). In Gran Bretagna si distribuiscono buoni pasto da 10 sterline per spingere a consumare nel fuori casa e, soprattutto, si è decisa una drastica riduzione dell’Iva (dal 20 al 5%) per riattivare i consumi in ristoranti e hotel. Da noi si vuole invece prorogare il lockdown (che non dà alcun vantaggio alla collettività, anzi...), decretando così fin d’ora la morte di molti locali.
E sui social avanza intanto un’onda pericolosa di stupidaggini come quelle di chi sostiene che chiudere bar o ristoranti non sarebbe che un bene, visto l’eccesso di pubblici esercizi, a volte aperti da incompetenti solo in virtù dell’assurda liberalizzazione degli scorsi anni. A ben guardare è sicuramente vero che il numero dei locali in cui si somministrano cibo o bevande è davvero esagerato per l’Italia. Nessun Paese europeo, in proporzione agli abitanti, ne ha così tanti. Ma da qui a pensare che si possa rimettere un po’ d’ordine nel comparto lasciando di fatto andare tutto in vacca, è davvero da irresponsabili. È come se si applicasse la teoria dell’immunità di gregge lasciando sopravvivere solo i più forti. Che non è detto che siano i più seri, i più onesti o i più bravi…
Ciò che non si può fare è mettere la testa sotto la sabbia e aspettare di vedere cosa succederà. Se, come andiamo ripetendo da tempo, il covid-19 porterà purtroppo ad una selezione nel numero dei pubblici esercizi, non si può lasciare tutto al caso. Si devono rivedere con urgenza le normative e fissare dei paletti perché si possa fare somministrazione. Il primo punto è che chi non rispetta i requisiti obbligatori che valgono per i ristoranti non deve poter fare somministrazione. Non è possibile che un bar possa essere chiuso se per sbaglio serve un alcolico ad un minorenne, mentre la norma non è applicabile al parrucchiere che offre un aperitivo nel suo salone o alla pescheria che serve un pranzo o una cena in negozio e magari non ha il bagno per i disabili. Occorre davvero che ognuno faccia il lavoro per cui è preparato. Lo strumento oggi fondamentale per mettere un po’ di ordine sarebbe il fatto che un locale può somministrare cibo solo se c’è un cuoco professionista, tale non perché si è messo una giacca bianca ed una toque, ma perché è riconosciuto da un esame, invece che da una formazione di alto livello. In questo modo verrebbero tolti dal mercato locali che, oltre ad abbassare il livello qualitativo del comparto, non hanno le competenze per garantire la sicurezza dei consumatori. Non dimentichiamo che in un ristorante ci si occupa anche della salute del cliente. E questo a prescindere dal covid-19.
Si tratta di una riforma che la ristorazione attende da tempo e che la drammaticità di questa crisi imporrebbe di adottare al più presto. Anche perché la competenza così riconosciuta permetterebbe di avere soggetti più motivati e capaci di condividere obiettivi e strategie, superando quella frammentazione che oggi caratterizza un comparto in cui ci sono troppe figure diverse, a volte totalmente impreparate. Se poi questo comporterà la chiusura di alcuni locali, pazienza. Ne guadagnerà comunque il sistema.
Per fortuna non bisogna inventare tutto dal nulla. Anche in Italia ci sono esempi positivi di come l’intero comparto può crescere, migliorare e non vivere oggi la crisi di tante zone. È il caso di Senigallia, diventata negli anni città gourmet dove si mangia bene ovunque. La cittadina marchigiana è un modello per la scelta di professionalità fatta dalla maggior parte degli operatori: hanno condiviso le buone pratiche e seguito gli esempi di successo di grandi cuochi come Cedroni ed Uliassi. Anche la clientela è cresciuta a livello di scelte consapevoli e diffida oggi degli incompetenti o di chi non è preparato. Fra le ragioni che spiegano questo modello c’è forse anche il fatto che a Senigallia (pur essendo quasi esattamente al centro dell’Italia ed avendo molte manifestazioni di richiamo) non arriva un turismo di massa straniero che non sa valutare la nostra cucina e che quindi si può imbrogliare facilmente. Pensiamo solo alle amatriciane surgelate su larga scala che si spaccia(va)no nel centro di Roma…
Offrire una ristorazione di qualità è una responsabilità importante. Ci si fida come si fa col medico. E sapere che dove si somministra cibo (sia un agriturismo invece che una trattoria, una pizzeria o un locale stellato) c’è senza deroghe un cuoco professionista e ovunque ci sono le stesse regole igienico-sanitarie e fiscali, riporterebbe più facilmente le persone a mangiare fuori casa, migliorando al contempo la possibilità di promuovere con efficacia materie prime di qualità e del territorio. A Senigallia lo fanno praticamente tutti, e tutti i locali sono pieni.