In questi giorni l’agnello è stato consumato su
una tavola su 2 in Italia: nonostante le campagne degli animalisti, questa carne resta il simbolo della Pasqua ed è il piatto preferito dagli italiani, nelle case, come nei
ristoranti e negli
agriturismi. Solo il 3% dei connazionali pare abbia festeggiato con un menu vegano o vegetariano.
Ma per quanto buono e di tradizione, non basta dire “agnello” per essere a posto. Secondo indagini che lasciano un po’ il tempo che trovano, gli italiani dicono di preferire animali di origine nazionale (88%) e c’è chi si azzarda addirittura a sostenere, sul web come in televisione, che quasi un italiano su 4 acquisterebbe l’agnello direttamente dal pastore per garantirsi la provenienza. Notizie ovviamente del tutto sballate e frutto di una retorica alimentata da chi ha forse interesse a sostenere questa immagine di un Paese dove sembra che ci siano più pecore che cristiani.
Anche se gli agnelli comprati in Italia vengono per lo più spacciati come “del contadino”, la verità è tutt’altra. In Italia sono allevati 7 milioni e mezzo di ovini e al massimo ci potrebbero essere un milione e mezzo di agnelli durante tutto l’anno. Un po’ poco per soddisfare la domanda concentrata di questi giorni...
Ed è facile intuire perché in occasione della Pasqua ci siano tanti imbrogli e la tracciabilità diventa una parola astratta. Ad andare bene - ma francamente abbiamo dubbi anche su questi numeri - per queste festività gli agnelli made in Italy sarebbero stati il 20% del totale, di cui la metà probabilmente quelli sardi Igp. Gli altri sono animali che provengono dall’estero, in particolare da Grecia, Romania, Macedonia e Nuova Zelanda. Ma è difficile che questi agnelli “non nazionali” siano stati indicati come tali. Nonostante l’impegno dei consorzi di tutela, da quello sardo (che l’anno scorso aveva certificato la macellazione di 750mila capi in tutto l’anno) a quello dell’Abbacchio romano, quasi tutti gli agnelli macellati sono stati venduti infatti come “nostrani”. Alla faccia di controlli e trasparenza.
Ancora una volta abbiamo perso l’occasione di dimostraci un Paese che sull’enogastronomia vuole puntare realmente. Vendere un agnello importato come italiano è una frode in commercio ed è un errore strategico per tutti. Un capo nazionale, per il tipo di allevamento e per le garanzie offerte, non può che costare di più di quelli esteri, ma di differenze di prezzo in giro ce ne sono state poche. E ad avvantaggiarsene è chi non è stato chiaro. Portare la carne di agnello “italiano” a tavola vorrebbe invece dire aiutare la ripresa di tante aree colpite dal sisma negli ultimi anni, dall’Abruzzo all’Umbria, alle Marche, al Lazio. Ed è anche un sostegno per i pastori sardi il cui mestiere è a rischio di estinzione, per i prezzi spesso inferiori ai costi di produzione e per la concorrenza sleale dei prodotti stranieri spacciati per nazionali.
Certo l’offerta non può soddisfare la domanda, oggi, ma prezzi diversi permetterebbero agli allevatori italiani di restare sul mercato e recuperare magari un po’ di pascoli grazie ai quali aumentare il numero dei capi e garantire una tutela del paesaggio fra pascoli e aree di transumanza. Il che significa dare valore a tutta la filiera agroalimentare e al turismo.