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Influencer? No grazie, vogliamo solo informare

Con gli “influencer” siamo arrivati alla semplificazione della comunicazione, alla negazione del linguaggio e alla propaganda più becera. Come giornalisti dobbiamo reagire cercando di fare al meglio il nostro lavoro

di Alberto Lupini
direttore
 
18 aprile 2017 | 15:25

Influencer? No grazie, vogliamo solo informare

Con gli “influencer” siamo arrivati alla semplificazione della comunicazione, alla negazione del linguaggio e alla propaganda più becera. Come giornalisti dobbiamo reagire cercando di fare al meglio il nostro lavoro

di Alberto Lupini
direttore
18 aprile 2017 | 15:25
 

Informazione o pubblicità? Per anni la comunicazione si è mossa entro questi due parametri molto chiari, con qualche sconfinamento che nel caso della stampa (nessuno escluso) si chiama “marchetta”: un articolo a pagamento che perde la caratteristica della correttezza e dell’indipendenza di giudizio. C’è chi ne ha magari abusato, e i giornali hanno perso un po’ di credibilità anche per questo. Ma nella sostanza i confini sono sempre stati rispettati. Con la rivoluzione del web questa separazione che garantiva i lettori-cittadini è però saltata. Ogni regola sembra essersi frantumata e a fianco di un accesso meno paludato e selettivo alle “notizie” è esplosa la bolla delle fake news (le bufale), mentre sul mercato sono apparsi nuovi soggetti che stanno imbarbarendo ogni livello di comunicazione occupando solo il campo della pura pubblicità, ma con la pretesa di fare informazione.

Influencer? Non grazie, vogliamo solo informare

La rete aperta a tutti (vera conquista di civiltà) permette a chiunque di dire quello che vuole (e anche questo è un bene). C’è però chi ne approfitta e, grazie all’anonimato, propaganda bugie e sparge veleni, odio o maldicenza. Per restare nel nostro mondo, i danni creati da un mostro senza regole come TripAdvisor sono lì a dimostrarlo. Mentre esplodono ogni giorno problemi su Facebook o Google. Pensiamo solo all’omicidio trasmesso in diretta e rimasto in rete per 3 ore.

Sul web le cose sono cambiate e i giornalisti non hanno più il “monopolio” delle notizie. Ognuno può dire quello che vuole: salvo casi estremi, non risponde di bugie o calunnie e l’oggettività diventa una chimera. I nuovi protagonisti sembravano essere diventati i blogger. Più o meno preparati, più o meno attenti a raccontare qualcosa. Ma comunque legati alla modalità di raccontare. Un nuovo passaggio è stata la diffusione di Twitter col limite dei 140 caratteri. Ragionamenti o argomentazioni sono stati sostituiti da frasettine ad effetto. Spesso incomprensibili per chi non è coinvolto...

Ora sono però arrivati gli “influencer” che, come le locuste, si stanno diffondendo ovunque, cancellando quasi ogni tipo di scrittura. Siamo arrivati alla semplificazione della comunicazione, alla negazione del linguaggio e al distillato della propaganda più becera. Un tempo il testimonial di un qualunque prodotto veniva identificato come tale. Poteva essere un calciatore o un attore che faceva tendenza e pubblicità, ma i suoi spazi erano ben definiti, e riconoscibili, sui giornali o in televisione. Ora, invece, stuoli di “adolescenti di ogni età” (come li ha acutamente definiti Valerio M. Visintin che per primo ha lanciato un allarme...), spesso senza alcuna competenza, armati di foto e video, si pongono fra il consumatore e le aziende per promuovere questo o quel prodotto.

E sempre più aziende (dalla moda all’alimentare) ingaggiano questi neo cavalieri dell’informazione fatta solo di immagini, pagandoli con la certezza di avere solo “yes man” ed evitare il rischio di qualche giornalista ficcanaso che, anche solo per curiosità se non per deontologia professionale, vuole capirci qualcosa prima di parlare di un prodotto. E questi influencer non si fanno scrupolo di parlare apertamente di tariffe legate ai click e alle visualizzazioni delle loro smorfie davanti a una borsetta o a una tazzina di caffè. Ovviamente di ottima fattura o con aroma meraviglioso...

Qualcuno parla di libero mercato. Da giornalista mi limito a sottolineare la puzza di suburra che esce da questo nuovo modo di fare comunicazione. C’è addirittura chi pensa che questo sia un nuovo modo di fare informazione e nell’organizzare degli eventi blandisce questi influencer, pronti a dire sempre di sì, relegando ai margini i giornalisti. Succede anche nella ristorazione, dove cuochi dall’ego smisurato o barano su TripAdvisor o si coccolano questo stuolo crescente di “bimbi-minchia” che magari non sanno nemmeno quand’è la stagione dei carciofi o la differenza fra un metodo Classico ed uno Charmat.

Ciò che preoccupa è che questo morbo sta colpendo anche colleghi che un tempo stimavo e che ora pensano che le argomentazioni possano essere sostituite da due foto e un video. Nell’improbabile attesa che qualcuno cerchi di mettere ordine per garantire il cittadino-utente-lettore che ha il diritto di essere informato con serietà, come giornalisti dobbiamo reagire cercando di fare al meglio il nostro lavoro. E per farlo dobbiamo impegnarci a non avere alcuna contaminazione con gli influencer a pagamento. Vogliamo solo informare, non imbonire la gente.

© Riproduzione riservata STAMPA

 
 
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19/04/2017 09:43:05
1)
Puntare il dito su chi si vende Influencer per fama e spiccioli è certamente cosa buona e giusta. Fare di tutta l'erba un fascio, come in tutte le cose, credo possa risultare semplicistico. I tempi, gli ambienti, gli strumenti e addirittura i fruitori cambiano, ed è giusto adeguarsi senza demonizzare nulla. Il problema sono, come sempre, gli individui. Esistono Influencer assolutamente inutili e opportunisti, così come ci sono Influencer di valore. La parola Influencer è brutta di per sé, ma teniamocela per capirci. Ci sono professionisti seri che sono diventati loro malgrado Influencer in un determinato settore, così come ci sono giornalisti Influencer. Ci sono Influencer che non fanno marchette, semplicemente comunicano e cercano di farlo nel modo migliore, a volte addirittura etico. Ci sono poi Influencer che si posizionano in settori dove non fanno certo molti danni. Un selfie con un capo alla moda da parte di chi possiede migliaia di seguaci nei social capisco che possa far gola a un brand di abbigliamento, e non ci vedo nulla di male. Concordo comunque sul fatto che il giornalismo debba riprendersi la dignità e la credibilità che possedeva un tempo, e che possa farlo attraverso il rispetto delle "regole del mestiere", tracciando una linea chiara e netta tra ciò che rappresenta e il popolo degli improvvisati.
Marco Andreani



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