Negli Usa il flagello dell'Italian sounding imperversa indisturbato e miete vittime quasi impotenti, quasi inconsapevoli, tra gli imprenditori di qualità del vero agroalimentare made in Italy che guardano con attenzione al potenzialmente ricchissimo mercato Usa, e miete altre numerossissime inconsapevoli vittime tra quelle persone statunitensi che, sovente dopo il loro “viaggio in Italia”, vorrebbero giovarsi dei sapori italiani e portarli a tavola senza che ciò debba risolversi in caccia al tesoro.
Ogni volta numeri terrificanti ed ogni volta, puntuali, gli annunci di salvifiche e miracolose azioni on the field effettuate dalle entità che istituzionalmente sono a ciò preposte. E nelle solerti press release che ne sortiscono, palese quanto inelegante il tono autoencomiastico, si racconta di successi conseguiti, di presenze record ed entusiastiche alla tale importantissima fiera (New York, San Francisco, Chicago). Ma un dubbio si insinua: se da anni si conseguono successi ed ogni ultima volta il successo è stato addirittura superiore a quello già lusinghiero della volta precedente, come è che l'Italian sounding non rallenta il suo malaffare, non scema, non esce dall'innervata presenza sugli scaffali e, magari subdolamente, dalle tavole di tanti ristoranti?
Evidentemente si combatte impropriamente; nulla si debella. Al più si è individuato il nemico da combattere ma, a fronte di quanto accade, quasi certamente non si è individuata l'efficace azione da intraprendere. Troppo comodo raccontare di successi, esporre numeri che mostrano incrementi di volumi e di fatturato ma che mai potranno mostrare quanto maggiore e di maggiore stabilità nel tempo potrebbe essere l'incremento sia in volume che, attenzione, ancor più in fatturato.
Presenziare in pompa magna alle fiere di settore sottende l'adesione ad un approccio b2b top down. Gli operatori di settore, adeguatamente supportati dagli enti istituzionalmente a ciò preposti, incrementano la visibilità dei loro prodotti a beneficio di buyers di grandi catene. Possono sortirne agreement il cui effetto pratico si risolve nella presenza a scaffale di prodotti made in Italy posti al fianco dell'Italian sounding. Una sorta di legittimazione dell'induzione in errore. È cosa voluta dalle grandi catene? Ah, saperlo!
Gli agreement sostanziano enfaticamente l'approccio auto encomiastico delle tempestive press release. Gli spazi vasti, l'approccio efficace, da supportare con una visione strategica che non può avere l'obiettivo di essere presenti alla fiera prossima ventura ma ben altro, è quello laborioso e pervasivo dell'educazione degli end users al prodotto di qualità made in Italy. Insomma, dal b2b top down, al b2c buttom up. Ci si rivolge in relazione (si parla e si ascolta) e non in comunicazione one way (men che mai in promozione one shot) a chi “consuma” il prodotto in esso ravvisando le emozioni che sa trasmettere il vero made in Italy e si avvia, pertanto, sia a saperlo “scovare” a scaffale, sia a sapersene approvvigionare mediante piattaforme efficienti di e-commerce.
Relazione mediante social media e conseguenti acquisti secondo un easy to buy che, esso sì, necessiterebbe di un competente ausilio di mano pubblica. Ne sortiscono individuazioni di soluzioni logistiche e di superamento di gangli intermedi della distribuzione. È lo scenario prossimo venturo. Certo, per molti è comodo definirsi, a vita, i combattenti dell'Italian sounding. Diviene sorta di rendita di posizione. Ma combatterlo davvero, con visione strategica e con l'intento vero di supportare l'economia del proprio Paese, è proprio cosa altra.