"Fumare come un turco", "Bestemmiare come un turco", "Stanno succedendo cose turche", senza dimenticare l'esclamazione tanto comune un tempo nell'idioma meridionale, "Mamma li Turchi!": sono frasi che non hanno mai rimandato ad un'accezione positiva del termine "turco". Così, tra le tante cose a cui da bambina non sapevo dare risposta, confusa tra questo intrico di significati, s'insinuava anche il "busillis" della farina di "grano turco", detta anche "gialla", ingrediente base della polenta, uno dei piatti più comuni e apprezzati della cucina bresciana, del nord Italia e non solo.
La spiegazione l'ho avuta molto tempo dopo, quando ho appreso che nel primo '500 tutto ciò che aveva origini esotiche, misteriose, come appunto il mais, era detto "turco", così come un'altra attendibile ipotesi afferma che - dopo essere stato importato in Spagna dal Nuovo Mondo alla fine del XV secolo -, ed essendo stato coltivato per la prima volta in Andalusia dai contadini arabi rimasti in questa terra, fu portato dagli stessi in Turchia, dove si iniziò a seminarlo. Le Repubbliche Marinare italiane che commerciavano con la Turchia lo riportarono in Europa, quindi non per mistero giunsero in Italia i semi del mais, e fu chiamato "grano turco" appunto perché arrivò in Italia per la prima volta dalla Turchia.
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Mais, dall'America l'alimento base per la preparazione della polenta
"Santa polenta"
Pochi cibi hanno un potere evocativo quale la polenta. Se ti siedi vicino al fuoco ad occhi chiusi e pensi alla parola 'polenta”, in un attimo si schiude un mondo. La sua storia è molto antica ed è intimamente connessa con l'evoluzione dell'uomo, poiché il cibo ha costituito nel corso dei secoli una tendenza, ma anche lo specchio delle condizioni di vita della società. Pure la "polenta", nelle sue infinite variazioni, è patrimonio comune di ogni civiltà della terra come primaria e arcaica forma di sostentamento.
Il medesimo concetto è rimasto in auge anche presso di noi fino a pochi anni or sono passando attraverso le varie epoche. Famose sono le varie polentine o farinate tramandateci nelle ricette di Plinio e di Apicio, vecchie più di due millenni e ancora attuali, per lo più fatte con semola aromatizzata da semi di finocchio, di coriandolo o altre erbe profumate, salate e pepate, addizionate con miele o vino o garum.
E fu ancora per molti secoli polenta di miglio, polenta d'orzo, di farro, di spelta e quindi di grano saraceno, la famosa polenta nera, in realtà bigia ma saporitissima e nutriente, che il Manzoni descrisse poeticamente come la piccola luna, in un gran cerchio di vapori, e che ancor oggi è famosa nella Valtellina ma più comunemente sopravvive in tutte le zone alpine con più o meno insistenza. La nuova semente subentrò presto e si affermò sulle altre, specialmente nel Veneto che può giustamente considerarsi, in Italia, la patria adottiva del sorgo.
La polenta, o per meglio dire, le polente, hanno accompagnato sin dai tempi più remoti il cammino dell'uomo in ogni civiltà, costituendo per la nostra stirpe una primaria fonte di sostentamento. Ne abbiamo testimonianza scritta attraverso lo storico latino Plinio e quella grande raccolta di ricette, De re coquinaria, attribuita ad Apicio, un cuoco della Roma Imperiale, personaggio molto discusso, che non affidò il suo sapere a penna e papiri, e del quale si sono potute recuperare le specialità realizzate per le mense delle classi ricche dell'epoca, grazie all'opera di vari personaggi appartenenti al mondo della gastronomia romana del tempo. Famose sono le varie polentine o farinate tramandateci in queste ricette, vecchie più di due millenni e ancora attuali, per lo più fatte con semola aromatizzata da semi di finocchio, di coriandolo o altre erbe profumate, salate e pepate, addizionate con miele o vino o garum.
Puls o pulmentum, era il nome dato alla "poltiglia" d'acqua e farina di cereali che costituiva l'elemento base dell'alimentazione dei legionari romani e delle classi contadine e proletarie. Principalmente composta di farro, ma anche di grano saraceno, miglio, sorgo, orzo, spelta, frumento - specie già da lungo tempo diffuse sul territorio italiano -, veniva via via arricchita, a seconda delle tasche, con legumi, formaggio, olive, verdure cotte, pesci conservati e dal garum, una salsa a base di pesce fermentato e aromi, di cui i Romani andavano matti. L'abbinamento con la carne avverrà in seguito.
Farinate, zuppe vegetali e polente sono rimaste a costituire il cibo principale delle classi rurali e meno agiate d'Italia sicuramente fin oltre la metà del secolo appena trascorso. Dovranno passare duecento anni dalla sua introduzione in Occidente, perché il nuovo "grano" sia accettato dai contadini italiani ed europei, "grazie" alle disastrose carestie che flagelleranno questi popoli, sopperendo con il mais, bisognoso di poche cure e con un altissima resa, se confrontato con altri cereali, in particolare il frumento. Così nel Bresciano e nel Bergamasco, ma in tutta la Lombardia, Veneto, nel Trentino, nel Polesine e nel Friuli questa strana ed esotica pianta incompresa divenne baluardo contro la fame.
Alla fine del XVII secolo dalle coltivazioni di granoturco della pianura arriva in città e nelle valli la polenta, scalzando quelle precedenti di farro, cereali vari, e di grano saraceno, un grano povero, originario dell'Asia centrale, che può essere coltivato anche nei paesi meno caldi. Pilastro dell'alimentazione popolare, che nei momenti travagliati del passato, la polenta veniva mangiata molto spesso senza accompagnamento con altri cibi di natura proteica, quel che a Brescia si dice mangià polenta surda. Saziava lo stomaco, ma avendo proteine vegetali di valore biologico inferiore, non costituiva di per sé un cibo bastevole al bisogno nutrizionale umano. La conseguenza, come notò l'occhio critico del poeta Goethe affacciandosi alle valli del Nord Italia, fu l'aspetto «malaticcio» delle popolazioni rurali, dovuto al «frequente uso che essi fanno del granturco e del grano saraceno per cucinare polenta e così si mangia. I tedeschi dell'altro versante tagliano a pezzetti questa poltiglia e la friggono nel burro. Il trentino la mangia così tal quale, tutt'al più con un po' di formaggio grattugiato, ma non mangia carne in tutto l'anno». La pellagra era dunque lo specchio della situazione, ma se pur "pellagrosi", grazie alla polenta bresciani & Co. riuscirono a sfangarla.
Sicuramente, non sempre e non per tutti la puls americana ha rappresentato l'unica alternativa alla fame, anzi, lo troviamo come accompagnamento principe dello spiedo e degli arrosti, degli umidi e dei brasati, ma anche interpretato in chiave solistica arricchito di altri ingredienti come burro, formaggi, ciccioli di maiale, salame, lardo e pancetta abbrustoliti o rimaneggiato in pasticci in cui si riutilizzano avanzi di cucina e dispensa, abbinato o mescolato a verdure, funghi e ogni cosa si presti al connubio culinario. Il bastone col quale si mescola la polenta, il tarél, dà il nome a quell'autentico peccato di gola che si chiama polenta "taragna", un'apoteosi di burro e formagelle di monte o formaggi vari, cugina della trentina "carbonera", cui concorre la salsiccia. Seguono la polenta "uta" (unta), quella "cunsa", o "cusa", tutte variazioni su tema.
Da alcuni anni l'autenticità della polenta è custodita nel Bresciano dal marchio De.Co. (Denominazione di Origine Comunale), che intende salvaguardare le antiche qualità recentemente riscoperte soprattutto dalle varietà di mais "Belgrano", a Castegnato, e "Mais 8 Tere", a Bedizzole, tramite le ricerche di appassionati agronomi ed il lavoro di contadini che hanno dimostrato di voler valorizzare una delle vivande-simbolo della cucina tradizionale della nostra provincia.
Madamigella Polenta, musa ispiratrice
La polenta è rientrata spesso come soggetto di quadri e a lei non sono rimasti insensibili neppure i poeti. Antonio Bucelleni, poeta bresciano, celebra il nostro sole sul tagliere in tono aulico:
[…] Infitto d'un abete al tronco
Esce ferrato uncino, e da lui pende
Vaso lucente di forbito rame.
Pura linfa per entro altri v'infonde,
E trito sale; altri la fiamma attizza,
Che del capace arnese il tondo ventre
Lambe seguace. […]
Carlo Porta, noto poeta del dialetto meneghino e gaudente della tavola, pensò bene - ispirato dalla visione e dal profumo di una polenta addobbata da una corona di tordi in padella - di celebrare il magnifico piatto con questi versi.
Quanto ai tordi, quanto ai merli,
eran pingui, freschi e sani
che una gioia era il vederli,
il palparli con le mani.
Ma la gioia la più intensa.
quella fu dei convitati,
allorquando sulla mensa
caldi caldi fur portati.
Volti in candide indumenta,
con lardosa maestà,
sedean sopra una polenta
come turchi sul sofà.