Lode al workshop PrimAnteprima 2024 svoltosi ieri pomeriggio a Firenze nella sede della Camera di Commercio. Perché si loda vivamente il workshop? I motivi fondamentali sono due: uno di metodo e l’altro di merito. Lode al metodo per quanto tutti gli interventi dei relatori si sono concentrati sull’analisi dei dati, fornendo informazioni, conoscenze e riflessioni. Lode al merito perché, per la prima volta - e non è un caso che ciò avvenga in Toscana - si ha il coraggio (di “coraggio” e di onestà intellettuale trattasi) di palesare lo stato non proprio di ottima salute nel quale da almeno un anno versa l’articolato comparto del vino. Proviamo a sunteggiare analizzando i cosiddetti key factors, i fattori chiave che determinano in larga misura lo scenario attuale. L’anno 2023 è stato caratterizza da tre elementi: contrazione dei consumi mondiali di vino, forte contrazione della produzione e riduzione degli scambi internazionali.
La conferenza di apertura di PrimAnreprima, alla Camera di Commercio di Firenze
La contrazione della produzione è davvero forte. La vendemmia da poco conclusa in Italia dichiara una produzione di circa 39 milioni di ettolitri, tra le più scarse degli ultimi decenni. A determinare il calo sono stati soprattutto eventi climatici sfavorevoli agevolmente inseribili nel problema più ampio definito “climate change”. Ma questo calo produttivo è ampiamente compensato dall’incremento delle giacenze, laddove si parla di decine di milioni di ettolitri dormienti nelle cantine (e non che prima dell’anno 2023 le cantine fosse vuote). Già a metà dell’anno 2022 si stimavano giacenze anch’esse nell’ordine delle decine di milioni di ettolitri. Cosa ne è conseguito? A fronte della caduta tendenziale dei consumi e del contestuale aumento delle giacenze in cantina, si è assistito a un ritocco verso il basso dei listini (-2% circa) dal produttore ai canali di vendita, distribuzione e horeca. Sul fronte dell’export, i dati preconsuntivo 2023 stimano un venduto di circa 22 milioni di ettolitri per un valore di circa 8 miliardi di euro. Lieve la flessione rispetto all’anno 2022.
I problemi strutturali del vino italiano
Secondo queste stime, l’Italia confermerebbe la leadership mondiale di export in volume mentre in valore resta seconda, distanziata dalla Francia. Tuttavia, sorta di “early warning”, segnale di pericolo, la ragguardevole concentrazione delle esportazioni negli Stati Uniti ora, con la riduzione della domanda statunitense, può creare degli squilibri al sistema vino nazionale, se non si corre ai ripari diversificando maggiormente le destinazioni finali. Sul mercato Usa è doveroso qualche dato ulteriore. Nell’anno 2023 le vendite di vino sono calate del 7% circa. In particolare, le vendite di vino rosso italiano sono calate dell’8% circa. Ed eccoci al vero, ineludibile punctum dolens, il “punto dolente” colpevolmente a lungo sottaciuto, una sorta di prassi apotropaica per scongiurare l’accadimento, una sorta di “butta la polvere sotto il tappeto”. Quindi, per parlare chiaro (finalmente) si tratta di prendere atto che quelle che appaiono criticità di settore non sono “contingency”, non sono il frutto di “episodi incidentali” effimeri, di cui presto perderemo memoria.
Le criticità, va detto con coraggio e con onestà intellettuale, sono divenute strutturali e sono riconducibili fondamentalmente alla flessione della domanda mondiale. Questo calo dei consumi mondiali è solo parzialmente dovuto alle crisi geopolitiche in atto. In larga parte, invece, il calo è dovuto ad un fenomeno di non facile lettura o “decifrazione”, che è la complessa rimodulazione della domanda alla base della quale c’è in generale la tendenza ad un minore consumo di alcol. Buttiamola sul pragmatico e individuiamo due concause, ben consapevoli che ve ne sono anche altre. Prima concausa: l’esosità del prezzo della bottiglia di vino al ristorante e comunque nell’intero settore horeca. Seconda concausa: il vino, soprattutto quello più “difficile”, cosiddetto “strutturato”, non è la prima scelta delle giovani generazioni, che gli preferiscono altre bevande alcoliche, prime tra tutte i cocktail e le birre. Ad impedire un brusco calo dei consumi ci sono le famiglie “non più giovani” con reddito medio-alto.
L'esempio della Toscana del vino
Come affrontare questo cambiamento, una volta che si è compreso che non di “poca cosa” trattasi, bensì di mutamento radicale delle dinamiche di business tra chi produce, chi vende e chi consuma? La prima arma che deve rispuntare, visto che la parola in sé e il suo significato divennero usuali ai tempi della pandemia, è la benemerita “resilienza”. La resilienza da intendere quale capacità (abilità) di affrontare il cambiamento e continuare a svilupparsi. Ricordiamo che da una minaccia scaturisce, se lo si vuole - se non ci si piange addosso, se non ci si atteggia a vittime, se si è pronti a riconoscere gli errori commessi - un’opportunità. Il cambiamento climatico, ineludibile, è una minaccia che si può commutare, con voglia di rinnovamento, con empito creativo e con la vision del termine medio, in un’opportunità. Espianti e reimpianti: nuove latitudini, nuove altitudini.
Il vigneto della Toscana: modello di business per l'Italia intero
La caduta tendenziale nel mondo della domanda di vino induce sia ad incrementare la qualità del prodotto vino e l’efficacia della comunicazione del vino (in uno con il suo territorio) sapendo narrare la distintività. E qui, Toscana docet. Pochi salienti dati relativi alla Toscana: 8% è la quota di vino a indicazione geografica toscano sul nazionale imbottigliato; i 61 mila gli ettari di vigneti in Toscana costituiscono il 9% del vigneto Italia; di questi 61 mila ettari, il 96% circa è destinato a vini a denominazione, rispetto a una media nazionale del 65% (58 indicazioni geografiche riconosciute, di cui 52 Dop (11 Docg e 41 Doc) e 6 Igt); quell’8% in volume diviene l’11% in valore. Giochiamo un attimo nella correlazione dei dati: 9% del vigneto, ma l’8% della produzione, ovvero resa per ettaro più bassa della media nazionale, sinonimo di migliore qualità; 8% del volume IG ma 11% in valore, ovvero si riesce a venderlo ad un prezzo superiore alla media nazionale. Torniamo alla “domanda”.
Ricarichi sul vino: sono ancora sostenibili?
Facciamoci caso: si parla sempre più di domanda, che sta diventando risorsa preziosa in quanto carente e si parla sempre meno di “vendita”. Insomma, sta accadendo che il vino si compra e non si vende. Il ruolo proattivo è quello del buyer / end user. La chiave di tutto è il sell-out, non può più essere il sell-in. E allora, se non è più il sell-in, meno gangli di intermediazione ci sono e meno valore si disperde. In rete, facciamo questa riflessione, il vino si compra, non si vende. Last but not least, la relazione tra la bottiglia all’origine, quando sta in cantina, poi viene movimentata nel magazzino uscita e poi perviene in qualche modo al magazzino entrata del ristoratore. Entra che è stata pagata (anzi, verrà pagata) 10 e va in carta a suvvia dite voi: 30? 35? 40?
Si può ancora? Si può ancora, a fronte di questo scenario che è testimone di cambiamento strutturale e non contingente pensare al “moltiplicato per”? Permane assurdo ritenere che sia più profittevole per tutti, a partire proprio dai ristoratori, agire “addizionato a”? È fuori dal mondo, in ottima “elisione dei gangli di intermediazione” ragionare in termini di agreement “conto vendita” tra produttore e ristoratore? Quando il cambiamento è strutturale, quando le gibbosità del tappeto, a furia di nascondere sotto di esso la polvere che ci si ostina a non voler vedere, diventano vistose, urge porsi interrogativi che contemplino il “perché no” piuttosto che il “perché”. È anche questa la grande lezione che ha saputo e voluto dare PrimAnteprima 2024.