Dobbiamo farcene una ragione. Se al posto di scatenare negli spettatori il dubbio che si trattasse di puntate di Zelig in trasferta sulla Rai, le due inchieste di Report sul vino italiano hanno finito per gettare immenso discredito sulla figura degli enologi e indistintamente su tutti i produttori italiani di vino - esclusi quelli appartenenti alla setta dei “vinnaturisti” - c’è un solo motivo: l’Italia è un Paese produttore di vino che, di vino, sa ben poco. Provate a pensarci bene. Chiunque abbia un minimo di conoscenza di cosa sia e come funzioni un “lievito selezionato”, o di come sia regolamentato l’utilizzo del mosto concentrato rettificato o, ancora più banalmente, conosca l’esistenza e il funzionamento dei disciplinari di produzione e delle commissioni di degustazione delle Doc, non può che aver sorriso - e al massimo criticato - due servizi della tv pubblica spacciati per “inchieste giornalistiche”, capaci solo di gettare fango e discredito incontrollato e generalizzato sul settore, spacciando pratiche assolutamente legali per “contraffazione” o, peggio, “sofisticazione”.
Il vino naturale non esiste
Ad eccezione di un paio di casi isolati - quello di Losito e Guarini in Oltrepò pavese e di Ripa della Volta in Valpolicella - il programma sottintende, millanta, dà parola a personaggi sostanzialmente sconosciuti ai più - anche nell’ambiente - utili solo a tirare l’acqua al mulino del programma. Nel sottintendere - e nel citare i due singoli casi di sofisticazione qausi come pratiche comuni tra le "grandi cantine" - Report distrugge tutto, indistintamente, come un tornado telecomandato dal Dio dei vini naturali che si erge a braccio armato di una comunicazione a dir poco violenta, dimenticando che il “vino naturale” è l’unica “tipologia” di vino che non gode di una definizione ufficiale, legale.
Già, il “vino naturale” non esiste, anzi è un ossimoro. E non è stata intenzione di alcun governo italiano istituzionalizzarne l’esistenza, certificarne la bontà o la superiorità - né dal punto di vista etico, né organolettico - rispetto al vino “industriale” finito nel mirino di Report. Ma siamo in Italia, Paese in cui si beve sempre meno e, anche quando si beveva molto, pochi pensavano di capirne le dinamiche. Perché il vino, in Italia, fa parte più del costume, che della cultura. Non è “cultura” ciò che resta nel settore e non è in grado di permeare la società.
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Il vino (e la sua conoscenza) potrebbe essere il dialetto capace di unire l’Italia, ma non si insegna a scuola. Si considera “ignorante” chi non è in grado di coniugare un verbo, ma ce la si può cavare alla grande in una conversazione tra amici citando semplicemente il nome di un paio di etichette famose, senza neppure sapere con varietà di uva sono prodotte. E la critica enologica di questo Paese, al pari quella internazionale, non ha sin ora fatto nulla per avvicinarsi a chi il vino lo beve. I “critici” sono bravi e competenti se un po’ criptici nelle loro descrizioni sperticate dei vini, tra tannini e sentori improbabili, tanto lontani dalla gente comune da non curarsi del contatto col pianeta Terra. È una responsabilità oggettiva quella sbattuta in faccia dalla montagna di fango di Report, che gioca proprio su questo. Il programma fa breccia nei cuori di chi non è acculturato sul vino, portandolo a pensare che l’utilizzo dei lieviti sia una sorta di “contraffazione”.
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Ed è così che alcuni telespettatori - senza che si tratti di abbacinati ultras del vino naturale - sono arrivati ad assimilare pratiche legali come l’addizione di lieviti allo scandalo del metanolo. È successo davvero, basta fare un giro sui social o introdurre l’argomento in un bar, o dal parrucchiere, per rendersene conto. Il punto è proprio questo: non è “inchiesta giornalistica” quella che gioca sulla pancia e sulla disinformazione, più che sulla cultura e sulla documentazione. Se è vero che il giornalismo, specie quello d’inchiesta, non si cura di niente e di nessuno se non della notizia e della verità, Report è lontanissima da centrare questo obiettivo, almeno quando parla di vino. A meno che il pubblico di riferimento non sia quello che in cielo osserva preoccupato le “scie chimiche”, possiamo dunque continuare a fare sogni tranquilli e a bere serenamente il vino che ci piace, senza troppe fisime. Sperando solo che si tratti dell’ultima puntata di questo Zelig in salsa Rai. Prosit.
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Alberto Lupini
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