Un mese fa, analizzando lo scenario del vino italiano all'estero, ci si pose interrogativo da far tremare i polsi: “Il peggio deve ancora venire?”. Teniamoci ancora ben in evidenza il punto di domanda, non si glissa, per carità. Proveremo ad azzardare risposta, ma prima è opportuno esporre fatti ed argomentazioni.
Vino italiano all'estero, i dati
Partiamo dal fornire qualche dato. Gli statunitensi continuano a bere meno vino italiano. Dopo il primo semestre siamo, in relazione al primo semestre 2023, ad un preoccupante -6%. In caduta, due vini che per decenni sono stati emblemi del made in Italy: Pinot grigio (-7%) e Chianti (-14%). In controtendenza con un +2% circa l'Asti Spumante. Attualmente gli spumanti italiani rappresentano il 33% del totale dei consumi di vino italiano negli Usa. È salute apparente. Riflettiamoci insieme: non è una buona notizia.
Gli statunitensi continuano a bere meno vino italiano (Shutterstock)
Lieve crescita per due realtà premium: Brunello di Montalcino e Chianti Classico. Relata refero, rispettosamente esentandoci da commento alcuno, la dichiarazione di Matteo Zoppas, presidente di Agenzia Ice: «Stiamo intensificando i nostri sforzi per sviluppare momenti strategici negli Stati Uniti, al fine di intercettare nuovi segmenti di clientela, ampliare il nostro mercato e mettere in contatto le nostre cantine con i principali operatori locali. In questo contesto, un momento chiave sarà il Vinitaly Usa, in programma ad ottobre a Chicago, per il quale stiamo lavorando a stretto contatto con VeronaFiere e la Camera di Commercio, insieme a tutti gli attori del sistema Italia e col supporto dei Ministeri dell'Agricoltura e degli Affari Esteri». No comment.
Vino italiano, i perché di una caduta
La considerazione fondamentale è la presa d'atto che la caduta dei consumi di vino è tendenziale, ovvero assume connotazioni che vanno ben oltre eventuale contingency del termine breve e si rinsalda, invece (purtroppo) nel termine medio e nel termine lungo. A cosa è dovuto tutto ciò?
Tra i fattori determinanti nel minor consumo di vino i prezzi abnormi dei vini nella carta vini dei ristoranti (Shutterstock)
Tanti e concomitanti i fattori, da quello, oramai in lettura atavica, del vino quotidiano vissuto come alimento ancor prima che come bevanda (ma parliamo di fenomeno in via di estinzione già 40 anni fa) a quelli ben più attuali a cogenti: termine del ciclo di vita del vino inteso come il più appealing delle bevande edonistiche, fuori sincrono di una narrazione divenuta obsoleta se non controproducente,sdegno del consumatore wine lover (divenuto consapevole delle dinamiche di pricing durante il lockdown) circa i prezzi abnormi dei vini nella carta vini dei ristoranti, politiche di marketing accorte e smart di bevande oramai con maggiore appealing del vino tra Millennials e Gen Z (birra e mixology).
Vino italiano, i prodotti premium
Il limite di analisi, sin qui, è nell'espressione “singolare” del vino. Commutiamo adesso dal singolare al plurale e parliamo di vini. Ai nostri fini, consapevolmente ed utilmente, si prescinde qui dalle differenze “scolastiche” (sono ancora ben frequentati e ci sono allievi giovani ai corsi per sommelier?) e si fa focus su posizionamenti secondo intrinsecità del prodotto e suo correlato posizionamento di mercato. Ergo, in buona e valevole approssimazione, facciamo qui distinguo tra quanto è “premium” e quanto, invece, “premium” non è.
Occorre fare un distinguo tra quanto è “premium” e quanto, invece, “premium” non è (Shutterstock)
Da “manuale”, definiamo così la premiumizzazione: una serie di pratiche mirate a migliorare il valore percepito di un prodotto, giustificando così un prezzo superiore. Ciò premesso, il fenomeno di viva attualità al quale stiamo assistendo, acclarato che analizziamo “vini” e non “il vino”, lo definiremmo con l'immagine della “forbice che si divarica”. La forbice che si divarica e che pertanto determina distanza ragguardevole tra le due lame sta qui ad indicare la distinzione sempre più netta tra il wine lover che acquista e beve (la bottiglia è venduta quando è bevuta) vini premium e i consumatori reduci che hanno come driver di acquisto il prezzo della bottiglia.
Vino italiano, il driver del prezzo
A momenti, insomma, si sta tornando al “vino della casa” in trattoria e al vino sfuso spillato da improbabile botte con pistola “carburante” per consumo in casa. Che vini sono? Senza minimamente voler pensare a frode in commercio, bensì solo pensando all'ignoranza oggettiva dell'erogatore che tranquillamente battezza questi vini con nomi approssimativi (a mo' di esempio: aglianico, primitivo, falanghina, sangiovese, vermentino, verdicchio, etc., etc.) agevolmente presumiamo che stiamo parlando di vini di mediocre qualità. E perché mai dovrei bere questi vini? Perché costano poco? Anche la birra a scaffale GDO costa poco, tutto sommato, ed è un sorseggiare piacevole. Li abbiamo denominati “consumatori reduci”, quelli che hanno come driver di acquisto il prezzo, privilegiando i prezzi bassi. Anelerebbero costoro a bere vini di migliore qualità? La risposta è: certo che sì. E allora, duole dirlo, siamo al cospetto del vorrei ma non posso.
Eccoci adesso sorprendentemente al cospetto di una folla ectoplasmatica. Esiste, sì che esiste. È una folla, eppure essa è, colpevolmente per gli occhi di guarda ma non vede, una folla invisibile (Blaise Pascal: “L'essenziale è invisibile agli occhi”). Chi sono? Sono quei wine lover non vocianti, timidini ma non rinunciatari, che spenderebbero qualcosina in più per acquistare (e bere) vini premium. Perché non acquistano i vini premium e, interrogativo ulteriore, perché palesano disincanto al cospetto del vino? Questione di portafoglio? No, è una folla che ha ragguardevole capacità di spesa. Non li confondiamo con i “vorrei ma non posso”. Questi qui, attenzione, appartengono alla folta schiera dei “potrei ma non voglio”.
Una soluzione è saper raccontare le persone che fanno vino, i territori, il lavoro in vigna ed il lavoro in cantina (Shutterstock)
Erano in sala, con fastidio percepivano che lo spettacolo non era più di loro interesse e con il buio, alla chetichella, prima in pochi e poi in tanti, se ne sono usciti a performance in corso giurando in cuor loro di non tornarci più. Che cosa è accaduto? Cosa ha cagionato tale sorprendente comportamento? Due le motivazioni fondamentali, entrambe ben salde. Il disinteresse, per non dire il fastidio, verso la narrazione, questa fatua sovrastruttura che ancora si ostina a rappresentare il mondo del vino secondo gergalità e spessori di una competenza che sovente è saccenza. Il raccapriccio nel constatare amaramente che i prezzi dei vini presenti in carta sono sfacciatamente esosi e non rispecchiano, come un'economia sana e seria pretenderebbe, nessuna catena del valore.
Vino italiano, quali soluzioni?
Se così è, individuati i motivi di malcontento dei “potrei ma non voglio”, proviamo a trovare ipotesi di soluzione. La comunicazione, innanzitutto. Saper raccontare, con il cuore ancor prima che con la mente, le persone che fanno vino, i territori, il lavoro in vigna ed il lavoro in cantina.
La rivoluzione del pricing. Può, ci rimettiamo alla catena del valore, una bottiglia che a riempirla di vino di qualità c'è voluto lavoro di vigna di cantina, arrivare al ristorante a 10 e poi ritrovarla in carta a 30? È una non logica. Si tratta di praticare un'addizione: il ristoratore aggiunge un tot al suo costo, ma non è che moltiplica. Stiamo sadicamente provando ad uccidere l'attività del ristoratore? No, è l'esatto contrario. A prezzi percepiti congrui, si venderebbero più bottiglie di vino, e nell'abbassarsi dello scontrino ci sarebbero più coperti. Inutile ribadire che sarà sempre tardi quando finalmente diverrà prassi adusa il Byob, cioè, poste determinate condizioni rese chiare e note, potersi portare la bottiglia da casa e, di contro, potersi portare a casa la bottiglia ordinata e bevuta a metà.
Vino italiano, la svolta digitale
Su tutto, in modalità pervasiva, aleggia lo scenario digitale. Lo scenario digitale amplia l'accesso dei consumatori a informazioni dettagliate sui prodotti, aumentando così la loro capacità di scegliere consapevolmente prodotti premium. L'e-commerce e i social media facilitano l'incremento di visibilità per produttore di nicchia a costoro consentendo di relazionarsi con target attrattivo. Per il segmento premium, le piattaforme e-commerce sono molto importanti. In questo canale online la presenza di prodotti premium è addirittura più elevata rispetto al mondo offline. Molto interessanti questi pochi dati a seguire. Nel canale fisico, i prodotti con un indice di prezzo almeno il 50% superiore rispetto al prezzo medio di categoria, incidono per un totale del 23% circa sulle vendite a valore; nel canale e-commerce, la quota è del 34% circa.
Per il segmento premium, le piattaforme e-commerce sono molto importanti (Shutterstock)
L'azione congiunta di enoturismo (fenomeno palesemente di moda) ed ecommerce, conduce a quella che potrà rivelarsi la soluzione salvifica per il wine business: il DTC, ovvero il Direct to Consumer. La vendita diretta da produttore a consumatore, con l'elisione drastica degli anelli di intermediazione. Ne consegue il riassetto della catena del valore e, poste robuste competenze di marketing, un'efficace evoluzione dei prezzi in lodevole approccio win-win. I “potrei ma non voglio” sono potenziali acquirenti dei vini premium.
Vino italiano, il peggio deve ancora venire?
Difatti, la premiumizzazione va intesa come la capacità di offrire prodotti d'eccellenza a prezzi accessibili, posti a salvaguardia di un value for money dal quale, indipendentemente dal portafoglio, oramai non si prescinde. Altra locuzione di gran moda è il “fine dining” che in prima approssimazione identifichiamo con l'andare a cena (vivere l'esperienza) in ristorante stellato che, se poi le stelle sono due o addirittura tre va meglio ancora. Ecco, sarebbe ora che concepissimo il “fine dining”, mai disgiunto, pena il suo vanificarsi dal “fine sipping”: il degustare un ottimo vino premium al meglio delle condizioni a contorno, ovvero il servizio del sommelier nella sua ampia articolazione. Ma c'è un'impegnativa domanda alla quale dare risposta: “Il peggio deve ancora venire ?”. Si spera di no e si teme di sì.