La locuzione “consegna a domicilio”, soppiantata dall’anglicismo “delivery”, e la locuzione “asporto”, soppiantata dall’anglicismo “take away” oppure “take out”: se così ha da essere, ci si adegua; malvolentieri, ma ci si adegua. La consegna a domicilio, pardon, si voleva dire delivery, è costumanza acquisita da tempo nel nostro Belpaese. Sorta di rito i cartocci fumanti avvoltolanti pizze, le buste allegramente unte a contenere pezzi ghiotti di fritto all’italiana. Consumo domestico frettoloso seppur graditissimo a fronte di impedimenti di vario genere, inclusa la scarsa voglia di cucinare. Tempo che fu, ma anche tempo presente.
Tecnologia indispensabile per la delivery
La delivery ha assunto adulta dignità di cronaca e robusta presenza a causa della pandemia, allorquando al permanere dell’interdizione del servizio di sala, si dava liceità ai ristoranti, con tutte le dovute cautele, alla consegna a domicilio. Buona parte della ristorazione di qualità, inclusa la ben comunicata presenza di famosi chef stellati, ha reso obsoleto l’assunto secondo cui delivery = pizza e/o cibo di rosticceria, e si è meritoriamente attrezzata per espletare questo servizio.
A questo punto sorgono notazioni originali: i
nuovi players, sovente rami locali di multinazionali che sanno fare
delivery, la sanno fare molto bene e assurgono perciò a fulcro vitale nel flow che conduce dalla cucina in cui si evade l’ordine alla tavola del cliente in casa sua.
Perché queste poche realtà che agiscono de facto in situazione di oligopolio sanno fare così bene questo mestiere e sanno ricavare dalla delivery la polpa degli utili, lasciando l’osso a chi produce?La risposta, non banale, è la seguente: queste aziende così ben strutturate, così ben pronte a porsi come leader di un profittevole business emergente, sono aziende operanti non nel settore della ristorazione come appare in prima analisi di superficie, bensì sono aziende di ICT (information & communications technology), realtà che detengono competenze applicate di tecnologia della comunicazione. Sono creatrici e fruitrici della cosiddetta “
app economy”.
Costoro hanno avuto l’idea geniale di tariffare il loro servizio in funzione del valore della merce trasportata. È un assurdo che rompe il paradigma secondo cui tariffare una movimentazione di merce, governare ed eseguire un processo mediante il quale un dato collo si muove dal punto A del mittente al punto B del destinatario è la computazione accorta di tre elementi oggettivi: le dimensioni del collo, il suo peso, la distanza da A a B. Invece nella delivery nel settore della ristorazione è passato con la passiva acquiescenza dei ristoratori il concetto della “percentuale”: un sovrapprezzo che possa garantire la copertura dei costi + una percentuale sull’importo dello scontrino.
Se così fosse, nella delivery tradizionalmente intesa, quella che innerva su gomma, su rotaia, via nave e via aerea i traffici nel nostro pianeta, quella che ci ha resi confidenti con un colosso come Amazon, noi tutti dovremmo pagare il servizio di delivery dell’appena citata Amazon in funzione del contenuto del pacco che ci viene recapitato e non secondo una tariffa trasparente e nota alle parti. E perché i ristoratori soccombono, si adeguano e di conseguenza vivono il loro servizio di delivery come un calice amaro da sorbire per sussistere? Un servizio che quando va bene pareggi e quando va male ci perdi pure? Semplice: non hanno ancora interpretato l’erogazione della delivery come un servizio sussidiario ma non ancillare a quello comunque prevalente della sala, e non si sono attrezzati con la necessaria quanto semplice
tecnologia.
Nel panorama dei fornitori di servizi spicca una realtà consolidata che ha il suo headquarter a Pozzuoli (Na):
WebApp. Il ristoratore che, fatti bene i suoi calcoli e valutate attentamente le condizioni a contorno, optasse per la fruizione del servizio proposto da WebApp potrebbe nel tempo breve affrancarsi dalle condizioni capestro imposte da quell’oligopolio de facto di cui si è detto. La soluzione prospettata è la app
MyFoodDelivery che contempla anche la gestione del take away sebbene sia in prevalenza progettata per la delivery. Un flusso di lavoro di grande precisione, meticoloso e nel contempo lodevolmente facile da utilizzare, grazie anche all’integrazione con Google Maps.
MyFoodDelivery
Altra connotazione positiva di questa soluzione ce la illustra il direttore generale
Roberto Cuccaro: «Prendiamo per mano il ristoratore nella costruzione facilitata della banca dati dei suoi clienti ai quali, sempre dalla nostra soluzione supportato, potrà indirizzare comunicazioni mirate. Accade sovente che una volta presa piena padronanza della procedura di front office, gestire l’ordine dalla comanda alla consegna con suoi fattorini ai suoi clienti di cui ha traccia e visibilità, il ristoratore trova utile ed appassionante dedicarsi proprio al back office scoprendo man mano le potenzialità di uno strumento il cui limite di utilizzo è dato solo dalla creatività del suo staff di marketing».
La delivery è anche attrezzarsi al meglio per quanto attiene il packaging. Anello delicato per come un package di carente qualità e mal predisposto al trasporto di cibo può inficiare non solo la qualità finale percepita dal cliente ma anche i doverosi accorgimenti igienici. Una bella e vivace realtà basata in Veneto e con presenza in tutta Italia, è
Delivery Oven, sorta di global provider di quasi tutto quanto serve al ristoratore/pizzaiolo per effettuare in proprio la sua delivery. Oltre allo scooter e al cartone recipiente della pizza, core business dell’azienda sono i forni applicabili su scooter o su vettura, mediante i quali il cibo giunge a casa del cliente alla corretta temperatura.
Delivery Oven
Delivery Oven ha inoltre assemblato la sua capacità produttiva con una vocazione all’assistenza post vendita. Ascoltiamo al riguardo quanto ci dice il ceo dell’azienda,
Rino Oscar Zeli: «Per noi la vendita di una delle nostre attrezzature è l’inizio del rapporto con il cliente che ci ha onorato della sua fiducia, giammai la fine. Tant’è vero che il nostro approccio, sin dal primo contatto con il cliente, è da consulente, non da venditore. Il modo in cui viene gestito il post-vendita segue quindi queste direttive, in modo che il nostro cliente possa trarre il massimo beneficio dalle nostre soluzioni».
Nuovo ristoratore e nuovo ristorante: ricaduta di quella tragedia che è stata la fase acuta della pandemia. Lezione imparata: riadeguamento di quella struttura produttiva chiamata cucina. Ampliamento delle piattaforme di servizio mediante le quali si distribuisce quanto prodotto in cucina. Non più solo la piattaforma sala, che comunque permarrà come la piattaforma prevalente, ma compresenza della piattaforma take away e della piattaforma delivery.
Sapersi attrezzare con la strumentazione adeguata. Strumentazione hard, intesa come tangibile, oggetti. E strumentazione soft, ad intendere soluzioni software che consentano di avere sotto controllo costante le fasi di funzionamento del centro di produzione e dei centri di distribuzione. È difficile? Ahinoi, sì, è proprio difficile... farne a meno!