La Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi, ha reso noto il 10° report della ristorazione relativo all'anno 2020. Il ministro allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti lo ha definito «un bollettino di guerra» e speso parole di conforto per imprese e lavoratori. Ma su un punto, molto più concreto e immediato come quello del green pass per accedere ai locali, ha frenato. «Non sono molto favorevole all'utilizzo per accedere ai locali - ha detto - semmai lo vedo come unica via di fuga per le discoteche, per le quali ancora non c'è una data di ripartenza».
Un passaggio sfumato, detto tra le righe e tra i denti ma che non può non piacere al mondo dell'Horeca anche solo come segno di vicinanza e di voglia di ritornare alla normalità. Il problema, già sollevato, è quello di un rischio di discriminazione tra chi è stato vaccinato o testato e chi no; ma il rischio - già toccato con mano da marzo 2020 a oggi - è quello di tenere chiusi i locali piuttosto che trovare soluzioni che, questo resta vero, comportano comunque delle scelte rischiose. Insomma: tra il via libera per entrare nei locali con il green pass generando un sentimento di discriminazione e l'idea di chiudere tutto a tutti non appena la curva si alza un po' forse è meglio la prima soluzione, se non altro dal punto di vista imprenditoriale (che per una volta non mette a repentaglio la salute di nessuno).
Le scelte di Giorgetti sul green pass
L'importanza di guardare avanti
E se ora l'idea sembra poco utile perchè i dati stanno crollando e i vaccini salendo,
forse bisognerebbe già iniziare a guardare al domani, all'autunno, quando (lo dice l'esperienza) il virus potrebbe ritornare, sotto altre forme, con altre varianti e costringere a chiudere tutto e subito. Pensare che il Covid si sconfigga nel giro di pochi mesi abbiamo capito che esiste solo nei sogni e non pensare ad anticipare le sue mosse è un
delitto nei confronti dei cittadini e dell'economia.
I numeri del report
Ma perchè Giorgetti ha definito "bollettino di guerra" il report della Fipe? Perchè i numeri, già noti, sono impietosi. Secondo i dati Istat, nel
2020 in Italia si sono persi 2,5 milioni di posti di lavoro misurati in unità standard di lavoro, di cui 1,9 milioni nei servizi. Il più colpito è il settore della
ricettività e della ristorazione che ha visto bruciare in un solo anno
514mila unità, più del doppio dei 245mila creati tra il 2013 e il 2019. Un dato allarmante che dimostra però anche l’eccezionale dinamicità pre-Covid del fuoricasa italiano.
Si apre di meno, le chiusure sono congelate
Il 2020 si è caratterizzato per un numero eccezionalmente basso di nuove imprese avviate: 9.190 a fronte delle oltre 18 mila aperte nel 2010. Per contro, i dati Infocamere certificano la chiusura nell’anno della pandemia di 22.250 attività. Un dato, che, tuttavia, sottostima la reale dimensione della crisi delle imprese della ristorazione, i cui effetti si vedranno soltanto nei prossimi mesi quando terminerà l’effetto anestetico dei provvedimenti di cassa integrazione, ristori, moratorie e via dicendo. A dicembre del 2020 negli archivi delle Camere di Commercio italiane risultavano attive 335.417 imprese della ristorazione.
Business in crisi, fiducia in caloDopo aver raggiunto il suo massimo storico nel 2019, con oltre 46 miliardi di euro, il valore aggiunto generato dalle imprese della ristorazione è precipitato in un solo anno di 33 punti percentuali. Un dato che si traduce in un crollo della fiducia degli imprenditori in una pronta ripresa del mercato della ristorazione. Nel primo trimestre del 2021,
il saldo tra valutazioni positive e valutazioni negative sulla dinamica del fatturato dell’intero settore segna -68,3%, in peggioramento di 13 punti rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, nonostante l’intero Paese si trovasse in lockdown.
Serrande abbassate, ristori inadeguati
Un’indagine condotta da Fipe e Format Research, certifica che il 97,5% degli imprenditori ha registrato, nel corso del 2020, un calo del fatturato della propria azienda. In particolare, 6 titolari di Pubblici esercizi su 10 ha lamentato un crollo di oltre il 50%, mentre il 35,2% ritiene che il
fatturato si sia contratto tra il 10% e il 50%. I motivi alla base della riduzione dei ricavi sono da ricercarsi principalmente nel calo della domanda a causa delle misure restrittive, sia sulle attività che sulla mobilità delle persone (88,8%), nella riduzione della capienza all’interno dei locali per l’attuazione dei protocolli di sicurezza (35,4%) e nel calo dei flussi turistici (31,1%), in particolare di quelli stranieri.
A fronte di tutto questo, i ristori previsti dal governo sono stati insufficienti. Per l’89,2% degli imprenditori i sostegni sono stati poco (47,9%) o per nulla (41,3%) efficaci.
I consumi domestici non bastano
Costretti a casa dai lockdown, gli Italiani hanno aumentato i loro consumi domestici, con la spesa alimentare aumentata di 6 miliardi di euro in un anno. Tanto, ma non abbastanza per compensare quanto si è perso nei pubblici esercizi, dove i consumi sono crollati di 31 miliardi di euro. Un dato che certifica come gli italiani abbiano speso meno soprattutto per prodotti agroalimentari di qualità superiore (vino, olio, piatti elaborati), comunemente consumati in maniera maggiore all’interno dei ristoranti.
In termini si spesa pro-capite siamo tornati indietro di 26 anni, al 1994.Pandemia e restrizioni hanno inoltre modificato il rapporto tra i consumatori e i pubblici esercizi. Se a luglio 2020, periodo nel quale i locali sono tornati a lavorare a buoni ritmi, la colazione rappresentava il 28% delle occasioni di consumo complessive, a febbraio 2021 la percentuale è salita al 33%. L’esatto contrario di quanto accaduto con le cene, passate dal 19% a meno dell’11%. A conti fatti, a febbraio di quest’anno colazioni, pranzi e pause di metà mattina hanno costituito l’87% delle occasioni di consumo fuori casa. Mentre è completamente scomparsa l’attività serale.
La speranza nel futuro, le ricette per il rilancio
L’85% dei titolari di bar e ristoranti si è detto sicuro che il settore riprenderà a marciare con decisione. L’incognita, tuttavia, è la data di fine dell’emergenza. Per meglio definire tempi e modalità della ripresa, Fipe-Confcommercio ha interpellato alcuni qualificati rappresentanti dell’industria, della distribuzione e della stessa ristorazione. Per quanto riguarda il ritorno ai livelli di fatturato pre-Covid, il 72% degli intervistati si divide equamente tra chi lo ritiene possibile nel 2022 (36%) e chi invece prevede uno slittamento al 2023 (36%). Resta un 27% di pessimisti che ritiene plausibile un ritorno a pieno regime solo nel 2024.
In generale, la speranza è quella che l’effetto rimbalzo dei consumi fuoricasa nei prossimi 3-5 anni possa portare a un incremento dei consumi nei pubblici esercizi tale da superare i livelli del 2019. Per cogliere questa opportunità, tuttavia, gli “addetti ai lavori” individuano due strade maestre. Per il 27% degli intervistati, gli imprenditori dovranno puntare su un incremento dei servizi digitali, a cominciare dall’home delivery e da forme di take away sostenibili ed efficaci, attraverso menù appositamente studiati. Un altro 27% suggerisce invece di puntare su un miglioramento della qualità, puntando su una specializzazione identitaria in grado di garantire riconoscibilità a un bar o a un ristorante. Sempre più decisiva, in quest’ottica, anche una puntuale attività di marketing e comunicazione.
Tutto questo scenario deriva dalle restrizioni imposte dal Governo che hanno comportato 192 giorni di aperture a singhiozzo dal 13 ottobre 2020 a oggi con 50 giorni in zona rossa, 68 giorni in arancione, 73 giorni in giallo e uno in bianco. L'Ufficio Studi di Fipe ha rilevato che alcune
Regioni hanno cambiato colore 19 volte.
L'incertezza, il nodo più caldo
Proprio questo elemento di
incertezza e discontinuità hanno rappresentato il problema maggiore per i ristoranti come più volte abbiamo sottolineato. «Impossibile - ha detto il direttore del Centro Studi, Luciano Sbraga durante la presentazione - impostare un lavoro in queste condizioni. E la cosa che più ci ha infastidito e che rappresenta un sassolino nella scarpa che voglio togliermi è che la curva dei contagi non ha alcun rapporto con l'apertura e chiusura dei ristoranti nonostante sia passata l'idea per cui noi eravamo gli untori. Basti pensare che il
tasso di positività dal
26 aprile (giorno in cui i locali hanno riaperto parzialmente) ad oggi è calato dal 5,8% al 2,8%».Sempre sul tema delle incertezze il rapporto ha rilevato come da un punto di vista economico e sociale il secondo lockdown sia stato molto più dannoso del primo, dove tutti avevano capito cosa si poteva e cosa non si poteva fare. I numeri non cambiano di molto, ma il tema è molto più complesso. E nonostante i
ristori siano stati definiti dalle aziende insufficienti (il 23% di queste addirittura non ha mai ricevuto un euro), nonostante i modelli di impresa siano cambiati radicalmente
(il 33% delle aziende non avevano mai fatto delivery prima del Covid) ancora gli imprenditori (l'85%) riesce ad avere fiducia nel futuro grazie ad una voglia di ripartire che va oltre ogni crisi.
Giorgetti questo lo sa e ha osservato: «Vogliamo dire ai giovani che l'imprenditoria genera ricchezza, che l'imprenditoria rilancia il Paese. Quanto alle incertezze, da quando si è composto questo Governo abbiamo preso ogni decisione con l'obiettivo di dare certezze, di prendere decisioni anche difficili, ma certe. La stessa cura la stiamo mettendo nei Ristori, occupandoci anche dei cosiddetti esodati che non hanno mai ricevuto aiuti e distribuendo in maniera congrua i fondi».
Aperture, chiusure, stop6go: queste le maggiori difficoltà per i ristoranti
Stoppani e il rischio di perdere professionisti
Il presidente di Fipe,
Lino Stoppani, ha puntato invece sul rischio di
perdere know-how: «Tra i posti di lavoro persi - ha detto - ci sono anche professionisti del nostro settore che hanno voluto cambiare lavoro per emigrare in settori in grado di dare più sicurezza. Questo per noi è un pericolo grandissimo, ci vorrà tempo per recuperare queste professionalità e quindi ridare qualità al settore.
Sull'ultimo decreto siamo parzialmente soddisfatti, ma c'è molto da fare: ad esempio sulle discoteche che ancora non sanno quando ripartire e da cui dipendono migliaia di famiglie. Dobbiamo sempre tenere presente inoltre quanto i pubblici esercizi rappresentino la socialità e la convivialità tipica dell'Italia:
22mila locali chiusi sono 22mila punti d'aggregazione in meno. E attenzione che sono tutte occasioni ghiotte per la criminalità organizzata».