Sembrava il modello del futuro per la ristorazione. Ma ancor prima che esplodesse, sospinto dal lockdown da pandemia, il delivery ha mostrato le sue crepe. Soprattutto sul fronte occupazionale. E dopo le prime critiche, il successivo tentativo di conciliare le posizioni di fattorini e aggregatori con un contratto sindacale, l'apertura di alcune società all'assunzione arriva la bordata della procura di Milano: 733 milioni di euro di ammende e la richiesta di regolarizzare la posizione di oltre 60mila rider.
Dati comunicati da Antonino Bolognani, comandante del Nucleo tutela del lavoro dei carabinieri, nel corso di una conferenza stampa con il procuratore di Milano, Francesco Greco, l'aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Maura Ripamonti che ha voluto fare il punto sulle attività di verifica partite dalla città meneghina e allargatasi a tutto il territorio nazionale.
I dettagli delle verifichePiù nello specifico, a far scattare le
ammende, sono stati i controlli delle forze dell'ordine di Milano su migliaia di posizioni lavorative. Un processo di
verifica che ha causato sanzioni per il mancato rispetto degli obblighi di prevenzione dei rischi, di visite mediche e protezione individuale e di formazione specifica per le attività. «Se le aziende pagheranno queste ammende, ciò consentirà loro l'estinzione del reato», ha spiegato Bolognani. Più duro il procuratore Greco per cui sono oltre 60mila i lavoratori delle società del delivery che dovranno essere
assunti dalle aziende come «lavoratori coordinati e continuativi». Questo significherebbe passare da lavoratori autonomi e occasionali a
parasubordinati. Uno scatto in avanti della procura che, in mancanza di un intervento politico che normi il tema dei
rider, ha prima messo sotto la lente di ingrandimento Uber Eats (per accertamenti fiscali) e successivamente tracciato un percorso di maggiore tutela per i lavoratori: «Non è più il tempo di dire sono schiavi ma è il tempo di dire che
sono cittadini», ha affermato Greco.
In totale, sono sei le persone
indagate dalla procura per abusi in materia di sicurezza sul lavoro tra amministratori delegati, legali rappresentanti o delegati per la sicurezza, delle società Uber Eats, Glovo-Foodinho, Just Eat e Deliveroo.
Il caso Uber EatsLa questione dell'assunzione dei rider colpisce anche
Uber Eats che è già sotto la lente di ingrandimento di un'indagine fiscale. Scopo dell'indagine è verificare se la filiale italiana della società statunitense (già finita, fino al 3 marzo,
in amministrazione controllata per capolarato) paghi effettivamente le tasse nel nostro Paese.
Just Eat e il progetto ScooberNel frattempo, però, c'è chi si è già mosso per tracciare
un processo di regolarizzazione dei fattorini. È
Just Eat che in Lombardia, più precisamente a Monza, applicherà il modello
Scoober che prevede l’assunzione dei rider come lavoratori dipendenti, consentendo loro di avere più vantaggi e tutele ma conservando la flessibilità e la possibilità di operare combinando studio e altre attività. Il modello Scoober, già presente in 12 Paesi dove è attiva la piattaforma, conta più di 19mila rider associati e quest’anno dovrebbe svilupparsi in 23 città italiane e raggiungere i mille rider assunti nel giro di quattro mesi.
All’interno di questa strategia rientra anche l’attivazione di una rete di
hub dedicati ai ciclofattorini che qui potranno ritirare e utilizzare mezzi totalmente sostenibili. Operazioni che saranno supportate da 100 nuove figure professionali per il coordinamento dell’intero nuovo modello. Gli hub saranno centri logistici e di incontro che saranno inaugurati nei prossimi a Milano, Roma, Torino, Bologna e Napoli.
Un business sostenibile?I problemi su fisco e occupazione gettano delle ombre sulla
sostenibilità del modello delivery da parte dei ristoratori. Se, da un lato, le piattaforme hanno il vantaggio di poter
aggregare la domanda e convogliarla in un'unica app in cui l'utente può scegliere il proprio locale preferito; dall'altro, la quota per associarsi al servizio può arrivare anche a una percentuale del 30% sullo
scontrino, lasciando ben poco agli imprenditori del food. Peraltro impossibilitati a leggere i dati raffinati di questo canale di vendita.
«Non va però dimenticato che siamo tipicamente nell’economia delle piattaforme. La stessa domanda sulla sostenibilità del business ce la ponevamo anche 20 anni fa per Amazon. E ora possiamo vedere tutti quello che è diventata. C'è stata un'evoluzione che, partendo dal commercio a bassa marginalità dei libri, si è poi spostato su altri settori a partire dall'utilizzo dei big data e il loro utilizzo per la pubblicità. Un aspetto che, penso, verrà sviluppato anche dalle piattaforme di food delivery», ricorda Roberto Liscia, presidente del consorzio Netcomm.
Secondo Liscia, oltre alla pubblicità, sono almeno tre i possibili sviluppi per le società di consegna di cibo a domicilio che renderanno sempre più cogente la loro presenza sul mercato Horeca: «Ci sarà una sempre maggiore conoscenza del cliente che, a fronte della commissione chiesta al ristoratore, risulterà decisiva per l'efficienza del business. Si svilupperanno servizi accessori sempre legati alla consegna ma non di solo food; un fenomeno che già caratterizza la proposta di diverse piattaforme in modalità C2C. Infine, il fenomeno delle dark kitchen e dei virtual brand che rappresenta l'entrata in campo vera e propria nel settore della ristorazione».
Il modello AlfonsinoCerto, le alternative "indipendenti" non mancano.
Una di queste è Alfonsino. Piattaforma nata nel 2016 con l'idea di portare la consegna a domicilio nelle piccole città, Alfonsino ha sfruttato a pieno l'accelerazione digitale imposta dal lockdown e attirato i clienti sulla propria app (o su Facebook Messenger). Presente in oltre 300 comuni e 8 regioni, Alfonsino può già contare su una rete di oltre 950 ristoranti partner e un
fatturato in crescita del +130% nel 2020. Numeri che permettono uno sviluppo ulteriore dell'azienda che nell'ultimo anno ha assunto circa 800 rider per rispondere alle esigenze di oltre 250mila utenti presenti sulla piattaforma