Tra chi vorrebbe riaprire subito e chi non aprirà più, i ristoranti colpiti dalla crisi innescata dall’emergenza Covid si distinguono in queste due categorie. Minimo comun denominatore, la liquidità necessaria a far ripartire attività che, dopo averci messo una pezza con asporto e delivery, ora hanno bisogno di tornare a un flusso di cassa costante. E consistente.
Attesa per il monitoraggio del 31 gennaio che dovrebbe rivedere il colore delle Regioni
Lazio, arancio o giallo? L’indiscrezione che voleva il
Lazio in zona gialla nel weekend aveva rilanciato le aspirazioni di ristoranti, osterie, bar e tavole calde che spingevano
per non aspettare domenica. «Fateci riaprire anche sabato», aveva chiesto
Sergio Paolantoni, presidente di
Fipe-Confcommercio Lazio giusto ieri. A meno di 24 ore di distanza, la prospettiva di riaccogliere i clienti in
sala sembra sfumata. Domenica 31 dovrebbe essere riconfermata la
zona arancione. «Ci speravamo in un parziale ritorno alla normalità e invece è arrivata questa ennesima doccia fredda», è stato costretto ad ammettere lo stesso Paolantoni in un articolo de
Il Tempo.
Per prepararsi alla riapertura, i pubblici esercizi avevano anche
proposto alle istituzioni di istituire i doppi turni: il primo dalle 12 alle 15, il secondo dalle 19 alle 21.30. Niente da fare, il limite di orario alle 18 sembra inscalfibile.
Emilia-Romagna, si riparte in attesa dei ristoriPiù concrete sembrano le possibilità dei ristoranti emiliano-romagnoli. Con l’imminente passaggio in
zona gialla, le attività di somministrazione dovrebbero tornare a riaprire a pranzo, mescere fino alle 18 e offrire colazioni e aperitivi. «Sono tutti molto motivati, sono chiusi, tolti quei due giorni a inizio gennaio, dal 23 dicembre:
c’è voglia di ripartire», ha raccontato
Massimo Zucchini, presidente di
Confesercenti Emilia-Romagna al
Corriere di Bologna. Poche le defezioni attese, concentrate soprattutto fra quelle
imprese specializzate nel servizio serale o lontane dai centri abitati e che, senza il flusso turistico, difficilmente potrebbero sostenere i costi nei giorni feriali.
All’attesa per
il ritorno in zona gialla si unisce anche la paura di
nuove chiusure. Un andamento a singhiozzo che non piace ai professionisti della ristorazione: «Ci serve tempo. Riavviare un ristorante è impegnativo. Non si fa in un giorno. Abbiamo bisogno di sapere: o si apre e si apre o stiamo chiusi e stiamo chiusi. Anche il fatto di non sapere se domenica riapriamo o meno, e si decide di venerdì, a noi
complica le cose», ha affermato
Paolo Carati di
Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato) Bologna.
In aiuto dei locali, la Regione ha messo a disposizione un bando da 21,3 milioni di euro (che arrivano a 40 milioni se si contano anche i fondi statali). Ma
il processo di accesso sembra ancora da oliare e le critiche per i criteri che ne determinano l’accesso non sono mancate.
Quelli che non ce la fannoNell’incertezza del tempo che passa, però, c’è chi non ce la fa a resistere. In attesa di capire come verranno distribuiti
i fondi del decreto Ristori 5, l’Ufficio studi di Fipe-Confcommercio stima che in
Veneto siano almeno 3.500 le attività vittime della pandemia. E l’imminente passaggio alla zona gialla non rischiara il panorama. Secondo i dati Istat, in Veneto, pre-Covid, i
pubblici esercizi attivi erano 26.833 per un fatturato aggregato di 5,9 miliardi di euro e oltre 124mila occupati. Ora siamo a tredici locali chiusi ogni 100.
Numeri e tendenze negative che hanno portato l’organizzazione
Veneto Imprese Unite a organizzare per lunedì 1 febbraio un
sit-in a Mestre: «Il mondo delle partite Iva è ormai sull’orlo del baratro. Qualche settimana fa avevamo chiaramente riportato al Governo e ai suoi funzionari sul territorio i dati secondi i quali molte delle nostre aziende non avrebbero potuto superare gennaio, se non con l’accoglimento dei punti del nostro manifesto e con un decreto ristori repentino e sostanzioso», ha affermato il presidente
Andrea Penzo Aiello al
Corriere del Veneto.
D’altronde, dopo 11 mesi di chiusure, riaperture e nuove chiusure su cui hanno pesato il crollo del
turismo e lo
smart working, hanno portato
il settore allo stremo e «i ristori bastano appena a coprire
parte delle spese vive che corrono: affitto dei locali, canoni fissi, luce, acqua, gas e così via», ha sottolineato
Eugenio Gattolin, segretario regionale di Fipe.
Addio amaro per la pasticceria FreniFra chi ha alzato bandiera bianca c’è la pasticceria
Freni di Milano. Le vetrine in Corso Venezia sono vuote. Niente più torte, cannoli e marzapane – la vera specialità della casa. Aperta nel 1914, dopo il trasferimento della famiglia Freni da Messina al capoluogo lombardo, l’
insegna si era presto espansa arrivando a quattro locali. Tutti chiusi, adesso.
«È stata una
scelta molto sofferta, maturata nell’arco di molti mesi. Per chi, come me, ha vissuto in negozio per oltre 30 anni, a contatto con i propri clienti tutti i giorni dell’anno, ha voluto dire trocare con la parte più importante della propria esistenza», ha commentato a
Libero Milano Carlo Freni, quarta generazione di pasticceri. Resta il
laboratorio, però, che punta sulla produzione per i mercati stranieri attraverso le potenzialità dell’online.