Una ricerca internazionale propone di rivedere il limite sotto il quale la salute non è in pericolo in caso di assunzione di alcolici, mettendo sullo stesso piano il consumo limite per uomini e donne.
La proposta è nata a seguito di una recente pubblicazione su The Lancet (Risk thresholds for alcohol consumption, aprile 2018), grazie al lavoro di un gruppo di ricerca internazionale, che ha riflettuto sulle soglie del consumo di alcolici a rischio per la salute.
L’analisi è stata condotta unendo i dati di tre studi - l’Emerging Risk Factors Collaboration (Erfc), l’European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (Epic) e la Uk Biobank Alcohol Study Group - relativi a quasi 600mila bevitori, appartenenti a 19 Paesi a reddito alto.
«Sono uno dei firmatari dello studio - ha detto al Corriere della Sera
Salvatore Panico, direttore del Dipartimento di Medicina Clinica dell’Università Federico II di Napoli - ma per noi italiani, che veniamo dalla cultura del vino, non è facile accettare limiti più stretti. Nello studio si giunge alla conclusione che, senza distinzioni di sesso, si deve restare sotto i 100 grammi di alcol a settimana. Traducendo: un litro di vino a settimana. Oggi, secondo le linee guida italiane, il limite per gli uomini è 140 e di 80 grammi per le donne».
«L’obiettivo dei ricercatori - chiarisce Panico - è stato quello di individuare la soglia di consumo di alcol associata al minor rischio di mortalità per tutte le cause e di malattia cardiovascolare, e di determinare la relazione dose-risposta tra consumo di alcol e rischio. Si è così confermata un’associazione positiva e dose-dipendente tra consumo di alcol e mortalità e si è visto che già un consumo settimanale superiore ai 100 grammi comporta un aumento del pericolo di ictus, di malattia coronarica, di scompenso cardiaco, di ipertensione arteriosa e di aneurisma. Solo per l’infarto del miocardio non fatale è stato individuato un modesto effetto di riduzione del rischio di non facile interpretazione alla luce dei dati complessivi».
«Si è calcolata una riduzione di 6 mesi di attesa di vita a partire dai 40 anni per chi consuma mediamente 100-200 grammi di alcol a settimana; 1-2 anni in meno per chi si colloca entro consumi medi di 200-350 grammi a settimana; 4-5 anni per chi supera i 350 grammi a settimana. Ma non esiste una soglia sotto la quale il rischio del consumo alcol-correlato si annulla, come d’altronde si può leggere nelle raccomandazioni ufficiali del Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro e su quelle dell’International Agency for Research on Cancer che ha classificato l’alcol come cancerogeno. Senza se e senza ma».
«Però - aggiunge Panico - è necessario fare qualche distinguo. Premettendo che il peso di questa analisi è indiscutibile - tanto è vero che è stato ripresa anche dal nostro Istituto Superiore di Sanità - non solo per il numero di persone coinvolte, ma perché si è partiti non dalle conclusioni dei vari studi, bensì direttamente dai dati grezzi, qualcosa sfugge. Si è considerato il consumo di alcol avulso dal contesto: manca il “Drinking pattern”».
Come si beve«In Italia - precisa Panico - si beve soprattutto a pasto senza concentrare le bevute in un solo giorno della settimana. E a tavola, magari, anche se un po’ meno frequentemente di un tempo, si segue ancora oggi un’alimentazione ispirata alla tradizione mediterranea».
«C’entra anche quello che si mangia, perché frutta, verdura, legumi, pesce e pasta hanno un ruolo anti-infiammatorio e possono contrastare gli effetti infiammatori dell’alcol. Ben diverso è se si eccede con la carne rossa e i vegetali in tavola scarseggiano. Ancora diverso è il caso del Binge drinking, le abbuffate alcoliche del fine settimana che, purtroppo, si stanno diffondendo anche tra i nostri giovani. Bere fuori pasto non solo porta di per sé ad eccedere, perché qualsiasi ora può essere buona per un bicchiere, ma perché viene a mancare l’effetto protettivo del cibo. Del cibo “giusto”, naturalmente».
La parità dei generi«Con gli uomini si è sempre stati più permissivi - spiega Panico - perché si ritene che l’alcol, a dosi moderate, possa aumentare le lipoproteine Hdl, cioè il «colesterolo «buono» , e quindi ridurre il rischio di infarto che, notoriamente, colpisce di più i maschi. Però ora che l’infarto fa meno paura - perché si tengono meglio sotto controllo pressione e colesterolo - e gli uomini muoiono più spesso di ictus, patologia il cui rischio è invece aumentato dal consumo di alcol, non ha più senso concedere al sesso maschile di bere di più rispetto a quello femminile. Quanto alle donne, con loro si è sempre stati più severi perché, almeno fino alla menopausa, sono comunque protette dai loro ormoni nei confronti dell’infarto e sono invece sempre esposte al pericolo di tumore al seno, pericolo che aumenta in modo significativo con il consumo eccessivo di alcol».
Il ruolo del reddito«Solo per poter contare su gruppi di confronto omogenei — chiarisce il professor Panico — molte ricerche hanno dimostrato che lo status economico-sociale influenza, non poco, le conseguenze del bere. È triste dirlo, e anche piuttosto ovvio, ma chi ha buone disponibilità economiche, e un titolo di studio più alto, riesce a parare meglio il “colpo” indotto alla salute dall’alcol. Se si ha un reddito medio -alto, si è più attenti alla prevenzione, ci si sottopone a un maggior numero di esami e si va più spesso dal medico. Ed è più facile mangiare sano e fare attività fisica. Infine, è anche più probabile che si badi non solo quantità di alcol, ma alla sua qualità. Il guaio è che l’alcolismo è molto diffuso in Paesi a reddito basso, o in transizione economica, penso a quelli dell’ex sfera sovietica, i cui abitanti risultano quindi più esposti ai rischi alcol correlati».