Come la stragrande maggioranza delle malattie, anche la celiachia si declina in numerose varianti. Esse si distinguono per gravità, per sintomatologia e per meccanismi di base. Certamente, la più temuta è la celiachia refrattaria. Come suggerisce il nome, questa forma si caratterizza per una mancata risposta alla terapia, che come sicuramente già saprete è esclusivamente alimentare (basta eliminare il glutine dalla dieta). In buona sostanza il celiaco, pur seguendo scrupolosamente un regime gluten-free, non smette di stare male o nota solo esigui miglioramenti.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la permanenza della sintomatologia ha carattere sistemico, ovvero corrisponde a una immutata difficoltà per i villi intestinali di contribuire alla digestione degli alimenti, perseverando in una condizione atrofica. Ciò comporta stanchezza cronica, denutrizione e altri danni collaterali. Non mancano, però, i casi in cui la celiachia refrattaria comporta la presenza di disturbi gastrointestinali, quasi come se il paziente stesse continuando a ingerire glutine. La buona notizia è che la celiachia refrattaria è rara. Non sono stati realizzati studi ad hoc per valutarne l’incidenza, ma si stima che colpisca meno del 10% dei celiaci totali. Tra l’altro, buona parte dei “refrattari” ha almeno 45-50 anni, quindi giovani alle prese con questa forma sono davvero pochi.
Studi sulla correlazione celiachia-Covid
L'importanza della diagnosi
Ciò pone in essere una qualche correlazione con le tempistiche della diagnosi. Se questa giunge tardi, vi sono ampie possibilità che la celiachia peggiori, sfociando magari nella variante refrattaria. Non bisogna comunque confondere la celiachia refrattaria con altre forme fastidiose di celiachia. Non basta incontrare difficoltà nel processo di remissione dei sintomi, per parlare di celiachia refrattaria. Le autorità sanitarie hanno comunque stabilito una soglia temporale: si può parlare di celiachia refrattaria quando i sintomi persistono per oltre 8 mesi dall’inizio della dieta senza glutine.
Uno studio per indagare l’impatto del Covid-19 sui celiaci refrattari
Chi soffre di celiachia refrattaria è sottoposto a maggiori rischi in caso di infezione da Sars-Cov2? Uno dei punti fermi di questa crisi è la correlazione tra patologie preesistenti e peggioramento della sintomatologia legata al Covid-19. Dunque, è lecito porsi questa domanda, così come lo hanno fatto i ricercatori della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che hanno realizzato uno studio ad hoc.
In particolare hanno studiato l’impatto del Covid-19 nei pazienti con celiachia refrattaria. Milano è stata selezionata come area di studio, particolarmente colpita durante la prima ondata. Il campione dello studio è composto da 21 individui tra i 42 e i 77 anni. Ebbene, nessuno dei soggetti monitorati ha contratto il Covid, dunque potrebbe escludersi un deficit immunitario tale da facilitare l’ingresso del virus.
Come si spiegano i dati?
Lo studio in questione potrebbe essere il primo di una lunga serie, anche perché il campione era oggettivamente piccolo. Lo scopo è quello di ottenere una conferma o una smentita dei risultati ottenuti. Tuttavia si sbaglia se si esclude a priori una correlazione tra celiachia refrattaria e forme gravi di Covid, sulla scorta di questo studio. I motivi sono due, uno biologico e uno comportamentale.
Dal punto di vista biologico a porre dubbi non è tanto la patologia in sé, quanto la terapia cui i “refrattari” devono sottoporsi. Una terapia che provoca una immunosoppressione. In secondo luogo, chi soffre di celiachia refrattaria potrebbe aver seguito con maggiore scrupolo le regole del distanziamento sociale. Ciò potrebbe essere accaduto in virtù di una maggiore consapevolezza sanitaria, che spesso si matura a seguito di patologie croniche. Le forme gravi di Covid sono associate a patologie preesistenti, proprio per questo molti hanno pensato che fosse meglio ridurre i rischi al minimo.