I farmaci con queste caratteristiche potrebbero rappresentare un’opzione terapeutica nei pazienti, al fine di prevenire successivi eventi trombotici di occlusione dei vasi sanguigni, come ictus, embolie e nuovi infarti.
L’ipotesi, avanzata da una ricerca diretta da
Giulio Stefanini, specialista in Cardiologia Interventistica in Humanitas e docente di Humanitas University, pubblicata sulla rivista Jama Cardiology, dovrà trovare conferma con nuovi studi prima di poter entrare nella pratica clinica.
La ricerca ipotizza terapie a base di anticoagulanti
Come spiega Stefanini, «nei pazienti con un infarto, un’ischemia acuta con mancato arrivo del sangue in un’area del cuore, viene seguita una strategia terapeutica antitrombotica, riducendo il rischio di una nuova occlusione dei vasi sanguigni con farmaci antiaggreganti, che agiscono bloccando l’azione di aggregazione delle piastrine nella formazione del trombo. Infatti, i pazienti che hanno avuto un infarto hanno un alto rischio di andare incontro a nuovi episodi di trombosi, come pure, nelle prime ore dall’infarto stesso, a un allargamento della zona cardiaca danneggiata dalla mancanza di flusso sanguigno; per ridurre questo rischio vengono utilizzati i farmaci antiaggreganti».
I nuovi anticoagulanti orali o anticoagulanti di nuova generazione, che non agiscono sulle piastrine ma direttamente sui sistemi di coagulazione del sangue mantenendolo fluido, sono stati inizialmente utilizzati per la prevenzione delle embolie nei pazienti con o a rischio di una trombosi venosa profonda o nei casi di fibrillazione atriale; condizioni che favoriscono la formazione di emboli che, trasportati dal sangue, possono andare a ostruire i vasi sanguigni.
Solo successivamente è stato tentato il loro utilizzo anche in pazienti con infarto, verificando che riducevano effettivamente il rischio di nuovi episodi ischemici da trombosi, ma nello stesso tempo erano associati a un rischio eccessivo di sanguinamenti, con il conseguente abbandono del loro uso in questi casi”, ha precisato lo specialista. Il paziente con infarto viene al momento dunque trattato in emodinamica con la vascolarizzazione (angioplastica), seguita dal trattamento con farmaci antiaggreganti.
Nella ricerca pubblicata su Jama Cardiology e realizzata da Humanitas in collaborazione con l’Ospedale San Raffaele di Milano e il Duke Clinical Research Institute statunitense, il professor Stefanini ha approfondito il tema dei benefici e dei rischi dei farmaci anticoagulanti di nuova generazione nell’infarto, riesaminando i diversi dati raccolti in lavori già pubblicati, ma suddividendo i risultati in base alla gravità dell’infarto stesso.
I ricercatori hanno potuto utilizzare le informazioni relative a quasi 30mila pazienti provenienti da 6 studi, selezionati in un campione di 19 studi clinici candidati a partire da 473 studi inizialmente reperiti. «Abbiamo visto che, dividendo in categorie e considerando separatamente il rischio dei pazienti sulla base della gravità dell’infarto, nei casi con un infarto più grave il vantaggio collegato alla prevenzione di nuovi episodi trombotici superava il rischio di sanguinamento, con un beneficio netto per il paziente, mentre era confermato un effetto nullo nei casi con un infarto meno grave, in quanto la riduzione del rischio di trombosi e nuove ischemie era pareggiata dall’aumento del rischio di sanguinamento, non giustificando quindi l’uso dei farmaci anticoagulanti in questi pazienti», ha precisato il professor Stefanini.