La
ristorazione è ferma da quasi due mesi, lo sarà ancora per tutto il mese di maggio e ad oggi neanche due aziende su 100 hanno ricevuto i prestiti garantiti dallo Stato. La fotografia del sistema messo in piedi dal Governo attraverso le banche per venire incontro alle imprese che stanno soffrendo per l’emergenza coronavirus, è stata scattata dalla Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, con un’indagine svolta nella giornata di lunedì 27 aprile su 780 imprese. I dati, impietosi, sono stati comunicati ieri in un’audizione alle Commissioni Finanza e Attività Produttive della Camera, dal direttore della Federazione,
Roberto Calugi, nell'ambito della discussione sul Dl Liquidità.
Solo l'1,5% delle aziende ha ricevuto il prestito garantito dallo Stato
Ritardi, lungaggini, burocrazia: i numeri parlano chiaro: il 95,1% degli imprenditori intervistati conosce lo strumento e il 74% intende presentare domanda o intenderà farlo. Il 44% delle imprese lamenta difficoltà nella presentazione della domanda, il 53% ha dovuto produrre maggiore documentazione alla banca e il 98,6% delle imprese non ha ancora ricevuto l’erogazione. Significativo che di questo 98,6% che non ha ancora ricevuto alcun finanziamento, la banca dica al 36,3% che lo riceverà fra almeno 4 settimane, mentre ad un altro 27,4% non prima di altre 3. Un sistema che non funziona, come la
Fipe ha già avuto modo di denunciare nei giorni scorsi.«È evidente che puntare tutto sul credito garantito dallo Stato utilizzando il canale bancario, anch’esso sotto stress per mancanza di personale ed un vertiginoso incremento di lavoro dovuto alle moratorie, non abbia funzionato – ha detto Calugi – L’inserimento del limite dei 25.000 euro fissato per l’erogazione massima consentita con la garanzia dello Stato al 100% è insufficiente. Si tratta di un limite eccessivamente basso, che in una qualsiasi azienda dei Pubblici Esercizi è ininfluente a finanziare una qualsiasi ipotesi di ripartenza».
Roberto Calugi
In Commissione, il direttore di Fipe ha accennato anche al tema delle
possibili infiltrazioni mafiose, che sarebbero alla base della scelta dello Stato di limitare i prestiti a 25mila euro. «Sul punto bisogna essere chiari – ha proseguito Calugi – lo Stato ha tutti gli strumenti per controllare, punire severamente ed estirpare il cancro delle mafie all’interno del nostro come di altri settori. Al tempo stesso, limitare l’accesso al credito alla stragrande maggioranza di imprenditori onesti e che lottano quotidianamente per sopravvivere in questo contesto, rischia - come sottolineato in questi giorni da diverse Procure della Repubblica - di consegnare la disperazione delle imprese ai “circuiti informali del credito”: mafie, strozzinaggio e usura».
A più delle aziende le banche hanno chiesto molta documentazione
«Inoltre – ha detto ancora il direttore di Fipe – aver limitato la garanzia dello Stato al 90% per gli importi fino a 800.000 euro - peraltro solo per le imprese con un limite a 3.200.000 euro - rende la verifica del merito del credito un obbligo da parte degli istituti di credito, ai sensi della normativa di vigilanza imposta dalla Banca Centrale. La garanzia accessoria dei Confidi, che permetterebbe di raggiungere il 100%, comporta necessariamente un’istruttoria ulteriore. Altre verifiche, altri passaggi, altro tempo, che purtroppo i nostri imprenditori non hanno a disposizione. Se veramente si vuole iniettare liquidità massiccia, va tolto il limite di 3.200.000 euro e va estesa anche a questo segmento la garanzia al 100% dello Stato. Le condizioni di maturità del credito, 24 mesi di preammortamenti e altri 4 di rimborso, inoltre, appaiono stringenti e non adeguate al momento di eccezionalità che la situazione rappresenta. Si ritiene opportuna una “maturity” di 20 anni per permettere a chi ha contratto il debito di poterlo spalmare su un lasso di tempo accettabile».
Le opinioni delle imprese sul dl Liquidità
Tutto questo, senza contare che la decisione, incomprensibile per l’intero settore, di posticipare l’apertura, al 1° giugno, dei locali di somministrazione di alimenti e bevande, ha ulteriormente penalizzato un comparto che nel 2019 ha registrato un giro di affari vicino ai 90 miliardi di euro, con oltre 300.000 imprese attive ed un milione e duecentomila addetti occupati. Un settore in crescita costante nel corso degli ultimi anni, anche nei periodi più difficili della congiuntura economica, e terminale fondamentale della filiera agroalimentare italiana con più di 20 miliardi di prodotti agricoli acquistati ogni anno. Per quest’anno, invece, la stima delle perdite generali è pari a 34 miliardi di euro;
rischiano di fallire 50.000 imprese generando perdita di posti di lavoro fino a 350.000 unità.
«Questi numeri sono persone, famiglie, collaboratori, fornitori e testimoniano storie di reale disperazione di imprenditori che si sentono letteralmente abbandonati dalle Istituzioni, in balia di normative complesse e a volte sovrapposte, con la prospettiva di veder vanificati in poche settimane i sacrifici di un’intera vita – ha detto ancora Calugi – L’apertura al 1° di giugno è particolarmente penalizzante ed ingiustificata. Si ricorda che per alcune aree del Paese la chiusura è in atto dallo scorso 23 febbraio. Questo comporterà un totale di 14 settimane di chiusura, il che, per le caratteristiche stesse delle nostre imprese, rende economicamente insostenibile la sopravvivenza. Non si comprende come mai i Pubblici Esercizi, che vengono classificati dall’Inail a basso rischio, debbano riaprire per ultimi. È evidente un gap di comprensione delle dinamiche economiche sottese a queste tipologie di aziende. Inoltre se, ormai, è purtroppo chiaro quando riapriremo, nulla sappiamo rispetto ai reali contributi economici per permettere alle nostre realtà di sopravvivere e ripartire».
Calugi ha riicordato inoltre come «senza aiuto dello Stato, sarà impossibile mantenere, anche nella fase 2, una redditività da parte delle nostre imprese», senza contare che «dei fondi promessi con il decreto Cura Italia, non è stato erogato neppure un euro e poco meglio funziona per
le casse in deroga e questo è inaccettabile, perché spesso gli imprenditori hanno dovuto anticipare questi soldi, indebitandosi ulteriormente».
Ma c'è anche da guardare avanti e la Fipe lo ha fatto, stilando un documento con le linee guida da seguire al momento della riapertura dei locali: «Con vivo senso di responsabilità, la presente Federazione nelle scorse settimane si è fatta carico di propria iniziativa di stilare un
Protocollo dettagliato, a cui ha aderito anche Confesercenti, per garantire una riapertura in sicurezza, redatto da esperti del settore coordinati da un virologo di chiara fama, trasmettendo l’elaborato alle varie Istituzioni competenti. Stiamo ancora aspettando. Nonostante questo, ad oggi non esiste alcuna indicazione chiara rispetto alle modalità che verranno richieste. Si è parlato di plexiglass, di due o più metri di distanza, di tute, di occhiali protettivi, di guanti, di sanificazioni più o meno certificate, di spazi minimi vitali e ovviamente di mascherine. Le aziende sono state lasciate nella confusione più totale, alla quale ha contribuito un’imbarazzante complessità normativa fra Stato centrale e Amministrazioni regionali. La questione dell’asporto è esemplificativa. Prima escluso dal Governo - unico caso in Europa - per DPCM poi reintrodotto a forza di Ordinanze regionali che hanno spinto il Governo a reintrodurre questo servizio a partire dal 4 di maggio».
«Non sfuggirà che individuare le misure protettive che dovranno essere adottate dalle imprese nella fase di riapertura, è decisivo per comprendere la possibile redditività delle stesse. È verosimile, soprattutto nella fase intermedia, che la gestione sarà in perdita, antieconomica, rendendo necessario un supporto pubblico per evitare ulteriori fallimenti. Dovendo giudicare i provvedimenti adottati dal Governo in questi due mesi di emergenza, spiace dover constatare l’inadeguatezza degli stessi, che hanno sin qui avuto scarsi effetti sulla vita reale delle imprese. Le risorse degli ammortizzatori sociali non sono arrivate e le misure dell’accesso al credito, previste in particolare agli artt. 1 e 13 del Decreto Legge “Liquidità” oggi in esame, stentano a decollare».
«In aggiunta colpisce che sin qui il legislatore non abbia sentito l’esigenza di differenziare gli aiuti, concentrando l’intensità di un intervento su quei settori, come quelli del turismo di cui i Pubblici Esercizi - con la ristorazione, il catering, l’intrattenimento e gli stabilimenti balneari - sono componente intrinseca e prioritaria.
In sintesi:
- Gli ammortizzatori sociali non sono stati ancora erogati, comportando la necessità, per molte aziende, di anticipare le risorse ai lavoratori;
- L’imposizione fiscale è stata posticipata e sin qui non si è intervenuti sull’abbattimento dell’ammontare dovuto;
- Gli affitti sono stati trattati limitatamente al mese di marzo, con credito di imposta e nulla è stato ancora fatto per gli altri mesi;
- L’accesso al credito previsto con il D.L. “Liquidità”, almeno sin qui, si è rivelato complicato e non all’altezza di quanto annunciato in termini di iniezione massiccia ed immediata di risorse;
- Si tratta comunque di un finanziamento, oneroso, da rimborsare in un tempo limitato;
- Inspiegabilmente si è ritenuto, senza coinvolgere alcuna Associazione di categoria, di ritardare fino al primo giugno la ripresa, almeno parziale, delle attività;
- Mancano ancora chiare informazioni sulle risorse che saranno messe a disposizione delle imprese e degli strumenti che potranno concretamente essere messi a disposizione;
- Non sono pervenute modalità chiare dei requisiti necessari da rispettare per la “fase 2”, mentre per alcuni settori, come l’intrattenimento, manca addirittura una prospettiva credibile di riapertura.
È comprensibile, quindi, come sia motivata la profonda insoddisfazione delle imprese del comparto rappresentato, strette tra una burocrazia asfissiante ed una normativa a tratti sovrapposta, di difficile applicazione e non coordinata fra centro e periferia, con ritardi cronici nell’erogazione delle risorse. Si sta assistendo ad un’implosione del settore, che manifesta tutta la sua motivata insofferenza anche a livello sociale. Per questa ragione, pur non essendo oggetto della conversione del DL n.23/2020, si ritiene importante sottolineare con forza come sia urgente ed indifferibile dare seguito alle seguenti richieste della categoria:
- Contributi a fondo perduto per i Pubblici Esercizi parametrati all’effettiva e documentata perdita di fatturato;
- Moratoria sugli affitti/affitto ramo dell’azienda e sulle utenze: compensazione per il periodo di chiusura e per il periodo di ripartenza;
- Cancellazione pro quota dell’imposizione fiscale, come Imu, Tari, tributi per la concessione del suolo pubblico e altre imposte fino alla fine del periodo di crisi pandemica;
- Prolungamento degli ammortizzatori sociali fino alla fine della pandemia e sgravi contributivi per mantenere i livelli occupazionali;
- Deroga all’occupazione di spazi all’aperto per favorire il distanziamento sociale e permettere agli esercizi di lavorare;
- Un piano di riapertura con modalità certe e sostenibili, con il coinvolgimento degli operatori del settore.