Spesso i lavoratori sono vittime di incidenti e addirittura perdono la vita sul loro posto di lavoro con una media di 2 decessi al giorno. Questo fenomeno prende il nome di “morti bianche”. I casi più eclatanti restano nella mente perché riportati sulle prime pagine dei quotidiani e dai notiziari radio-televisivi, come il caso di Christian Martinelli, l’operaio meccanico stritolato dal tornio nell’esatto momento in cui al Senato si osservava un minuto di silenzio per ricordare Luana D’Orazio, altra operaia di soli 22 anni, che due giorni prima è rimasta imbrigliata e schiacciata dal macchinario tessile dove operava. O i due (più recenti) operai di Pavia, deceduti dopo essere stati investiti inalando vapori tossici.
Anche il cuoco non è un mestiere senza rischi... soprattutto a lungo termine
Italia tra i primi Paesi industrializzati con il maggior numero di vittime sul lavoro
Sciagure che fanno
salire il numero delle vittime a 306 in soli 4 mesi. Un dato preoccupante che porta l’Italia tra i primi posti per numero di “morti bianche”, almeno tra i Paesi più industrializzati. Un primato che davvero non ci fa onore, visto che diversi di questi decessi non si possono imputare solo alla fatalità, all’errore umano o al destino, come si voleva far credere per
i 14 morti della funivia che collega Stresa con il Mottarone.
La mancanza di formazione e prevenzione fra le cause
A determinare tutti questi decessi, dalle più distinte e svariate dinamiche che colpiscono tutti i settori produttivi, dall'agricoltura all'industria, dall'edilizia al trasporto, ci sono
cause ben oggettive, quali
inadempienze,
scarsa sicurezza dei luoghi di lavoro e dei materiali utilizzati, insufficiente
prevenzione degli incidenti e soprattutto
mancanza di rispetto per la vita umana, che la vede quasi in secondo piano rispetto al profitto e agli interessi aziendali.
È una
questione molto complessa, che secondo me si inserisce in una cultura (quella di noi tutti) legata alla prevenzione e alla formazione, per la quale è necessario intendere sempre il
benessere del lavoratore e la sua stessa vita quali
valori inestimabili, mai da “svendere”.
In cucina i problemi sono altri... Cuoco come professione usurante
Grazie a Dio il nostro comparto e lo stesso
ambiente di cucina dove operiamo non sono “teatri” di gravissimi episodi di infortuni con menomazioni permanenti o addirittura morti, salvo qualche sporadica eccezione. Giorno dopo giorno tecnologie, strumenti e ambiente sono molto migliorati rispetto al passato, in fatto di
sicurezza e prevenzione infortunistica: dita tranciate dal tritacarne è cronaca del passato, così come folgorazioni elettriche e simili.
Il “morbo” invece che si cela tra i fornelli e che impedisce un giusto benessere lavorativo per il cuoco si chiama
stress fisico e psicologico, e ancora,
malattie cardiovascolari e posturali,
patologie legate agli elevati sbalzi di temperatura cui il cuoco è continuamente sottoposto; problemi addirittura odontoiatri, specie tra i pasticceri, per via del continuo assaggio ed uso di zuccheri.
Dal il mio insediamento a
presidente Fic, il nostro ente di categoria si è subito attivato
presso gli organi ministeriali competenti per il
riconoscimento della professione di cuoco come usurante. Parallelamente abbiamo avviato una serie di attività tra i tesserati, di
informazione, prevenzione e formazione, dedite alla
salvaguardia del benessere fisico e mentale sul lavoro. Tutto questo per consegnare alle nostre nuove leve un
futuro professionale quanto meno sicuro e il più tutelato possibile, sotto ogni aspetto!
Che la storia di
Antoine Carême, il grande e noto chef francese, ci faccia pensare e riflettere: egli morì nel 1833, all'età di solo 48 anni a causa di malattie polmonari causate dalla continua inalazione di fumi di carbone, abituali nelle cucine dell'epoca. Che sia solo ed esclusivamente una brutta storia di un passato lontano.