Le tragiche cronache di questi ultimi periodi, che vedono responsabili i fondamentalisti islamici, mi rammentano un fatto di oltre 13 anni fa e un nome: Antonio Amato. Chi è, o meglio chi era? Forse qualcuno ricorda, Antonio era un cuoco ucciso come un animale da macello in una terra lontana che non era la sua. Lui con la guerra e la politica non c’entrava nulla, lui non era un carabiniere o un soldato di Nassiriya, non aveva a che fare con armi: cucinava spaghetti nell’attività dove prestava servizio. Lo hanno ammazzato, ripeto, in maniera orribile, vittima di un terrorismo cieco, meschino e vergognoso per l’intero genere umano e che colpisce a caso con l’indifferenza più totale. Usato come vittima sacrificale dai suoi aguzzini, per far vedere al mondo intero la loro efferatezza e determinazione, in nome di un Dio che non conosce né tolleranza né pietà verso gli appartenenti ad altre religioni.
Naturalmente, sui giornali e nelle televisioni si è parlato di Antonio oltremodo sulla sua persona e vita privata, e per “dovere di cronaca” anche nei particolari macabri sulla sua uccisione. Ma nessuno aveva detto la vera ragione per la quale fosse veramente lì, in quel territorio “a rischio” e dove già si avevano avuto le prime sporadiche rappresaglie nei confronti di culture e religioni diverse. Un giovane cuoco con una vita davanti a sé, ucciso in una nazione non sua, lì spinto dal bisogno, poiché la “sua terra” lo aveva sfruttato e deluso, non gli dava di che vivere adeguatamente, e soprattutto privato del rispetto per il suo lavoro. Verità che molti, tutti, hanno taciuto. Antonio è morto senza sapere il perché, colpevole solo di aver cercato altrove, dopo sfruttamento economico e difficoltà, una strada più dignitosa e più adeguatamente remunerata per le sue prestazioni e capacità lavorative.
La nuova Federazione italiana cuochi, in fase di progressiva crescita, deve divenire sempre più “organo di tutela” e punto di riferimento nei confronti della nostra categoria, specie per quelli più “deboli”, come i giovani e in quelle aree più soggette del nostro territorio a sfruttamento del nostro lavoro. Non nascondiamoci e non neghiamo anche questo problema. La piaga dello sfruttamento, del lavoro nero esiste e non solo per gli extracomunitari giunti clandestini nel nostro Paese.
Molto è stato fatto rispetto il passato per sopprimere questa piaga, ma ribadisco: bisogna fare di più ed isolare quei datori o aziende “fuorilegge”. I giovani hanno bisogno di sentirsi tutelati e maggiormente seguiti, non solo con eventi e manifestazioni a loro rivolti, ma anche attraverso un “percorso”, non di sostituzione ai sindacati e agli enti di controllo e tutela al lavoro, ma di presenza, assistenza e consulenza all’insegna della nostra Federazione in quei territori che danno modo a questo “malcostume” di esistere. Credo che questo possa essere motivo di un ulteriore avvicinamento e credibilità verso il nostro ente da parte dei giovani che nell’ultimo decennio si sono sentiti non sufficientemente considerati e non tutelati.
Questo è un mio doveroso impegno nei confronti dell’intera categoria, lo garantisco. E per Antonio Amato, e in suo ricordo, un doveroso e rispettoso silenzio dedito a grande riflessione da parte di noi tutti.