Nel dibattito sulla presunta crisi del fine dining, suscitato dalle perdite gestionali del locale milanese di Carlo Cracco e che sembra aver coinvolto a vari livelli tutto il mondo della ristorazione, entra anche Claudio Gargioli, dello storico locale "Armando al Pantheon". È un ristorante dall'arredo sobrio a pochi metri dal grande monumento della romanità, nato nel 1961 come bottiglieria con cucina, e da sempre tempio indiscusso dell'autentica cucina romana. Cuoco, ricercatore e scrittore, nato a via De Balestrari, a Campo de' fiori, propone e racconta in varie pubblicazioni la cucina della città e della sua gente, seguendone l'evoluzione nel tempo e le sue radici nella Roma antica. Fedele agli insegnamenti del papà Armando ha sempre presidiato i fornelli insieme al fratello minore Fabrizio. A loro si sono aggiunti poi il genero Graziano Roscioli e il fidatissimo Mario Rinaldi.
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Fin da quando era ragazzo, Gargioli perpetua le ricette e i segreti del mestiere del padre, esaltando con tocco leggero la qualità assoluta delle materie prime che arrivano da fornitori di consolidata fiducia. Purtroppo - conseguenza del successo- per gustare la sua cucina bisogna prenotare con larghissimo anticipo, anche mesi. I suoi libri come “Menù letterario tipico romano” e "La mia cucina romana" hanno incassato premi letterari come il Pannunzio e il Grinzane Cavour e solo di notte trova il tempo di scrivere. Ma non in tutti si parla di cibo: il suo ultimo volume "Il mondo sta tutto in cucina" è un vero romanzo. Il titolo è un po' fuorviante perchè il protagonista è uno chef, un alter ego che parla in prima persona e fa pensare alla grande saga di Pepe Carvalho di Montalban. Un altro romanzo ambientato nella Roma degli anni '60 (anche in questo niente ricette) è già pronto e aspetta un editore.
Crisi da fine dining, Gargioli: «La cucina deve essere la storia di un popolo»
E Gargioli cosa pensa dell'alta cucina, quella blasonata che non gli appartiene? È davvero in crisi? «Il tema - dice - è stato un gonfiato perché di fronte ad entrate enormi possono verificarsi grandi perdite. Ma questa cucina per essere davvero "alta", deve saper creare qualcosa di nuovo, di importante. Penso ai grandi come Adrià o Marchesi...ma di quel livello non ne nasce uno ogni dieci minuti e poi arriva inevitabile un momento di stasi. Penso poi che non sia moralmente giusto spendere tanto per un piatto anche se i suoi ingredienti possono avere costi altissimi e poi - si sa- quello che conta è sempre la firma. Io amo invece la mia cucina di tradizione romana. Parafrasando Pirandello, 'è la facilità quella più difficile da fare' . Potrebbe sembrare una mia acredine di fronte a certe realtà ma così non è, non c'è invidia. La cucina deve essere la storia di un popolo, deve rispettarla. Certo, deve evolversi, ma deve farlo con un approccio culturale: non è detto che la cucina romana -che in genere viene avvicinata a quella povera del quinto quarto- non debba evolversi, anche riallacciandosi alle sue radici storiche. Con lo studio e la ricerca anche una coda alla vaccinara può essere trasformata in un grande piatto, migliorata nel gusto se non nell'aspetto. L'Italia è tanto lunga da nord a sud e questo vale per tutte le sue cucine, sempre fantastiche».
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Crisi da fine dining, Gargioli: «Stupire la gente con le nostre materie prime»
E poi: «Va benissimo andare dagli stellati, si prova l'esperienza, si fanno le foto. Ma altra cosa è la cucina vera, quella di tutti i giorni preferita da tutti. La differenza? Loro sono l'alta moda e noi il pret a porter, ma non da bancarella perché c'è la qualità. I nostri sono abiti che si indossano tutti i giorni e non sono di facciata, solo per le grandi occasioni. Vogliamo stupire la gente? Facciamolo con quello che abbiamo, con le nostre grandissime materie prime. Non servono effetti speciali. Penso a un uovo con dell'ottimo tartufo bianco, il massimo della semplicità. L'ho provato in Piemonte e ne conservo ancora una sensazione indimenticabile. E poi in fondo non c'è più niente da inventare. Alcune preparazioni possono sembrare una novità ma non lo sono, come una tradizione ripescata lontano nel tempo. Nei miei studi documentati sulla cucina della Roma antica ho riscoperto dei piatti che sembrano attualissimi. Come una torta che ho inserito in menu da decenni, una specie di frolla con ricotta e confettura di fragole a cui ho dovuto sostituire solo lo zucchero - che i romani non avevano- perchè il miele induriva l'impasto. Ho fatto provare ai miei ospiti anche l'anatra alle prugne come la faceva Apicio 2000 anni fa e la Faraona ai funghi con la birra nera (il morettum) anche se alcuni prodotti erano diversi dai nostri, come spezie orientali oggi sconosciute o salse come il garum. Tutte queste preparazioni possono sembrare invenzioni ma invece escono dalla storia, così come le polpette di farro che ho sempre in carta che finiscono subito».
Gargioli: «L'evoluzione e la ricerca hanno reso diversi i piatti di una volta»
«C'è anche da dire - conclude Gargioli - che l'evoluzione e la ricerca hanno reso diversi i piatti di una volta. Allora non c'era formazione. Non si sapeva ad esempio che le foglie del sedano in grande quantità sono tossiche. Nella coda alla vaccinara che ne richiede molto ce ne metto una minima quantità. Lo stesso avviene per i condimenti perché i piatti siano più leggeri e digeribili. È quanto richiede oggi il consumatore più attento ai valori della qualità e della genuinità. Certo, diciamo che la pandemia ha creato anche molti paranoici, ma i nostri clienti di noi si fidano, sanno cosa mangiano. Per esempio sono amatissime le nostre polpette, tradizionalmente piatti di riciclo e che spesso per questo al ristorante suscitano diffidenza. La nostra attività, a partire da quella di mio padre, che pure veniva da una famiglia povera, da sempre ha avuto al centro la qualità assoluta. Siamo qui da tanti anni, accanto al Pantheon, il più imponente simbolo della Roma antica e continuiamo a lavorare come sempre, orgogliosi di appartenere alla storia della città e della sua gente».
A segnalare ad Armando Gargioli, 64 anni fa, questo locale sfitto e disastrato fu un certo Salvatore detto "Il Santaro" perché vendeva i santini ai pellegrini e lui, che per precedenti esperienze non voleva più lavorare sotto padrone, lo acquistò firmando una montagna di cambiali. Il resto è una storia di famiglia. I piatti più richiesti? L'amatriciana, la carbonara, la gricia - che è la madre di tutte le paste - la giudaica minestra di broccoli e arzilla, la pasta e ceci di venerdì che accompagna il baccalà, poi l'abbacchio scottadito, i saltimbocca, lo spezzatino di vitella ai sentori di bosco o in buglione, le polpette. Competente e sorprendente con ben 400 etichette, la carta dei vini curata dalla figlia Fabiana che è sommelier. Ma anche altre persone della famiglia (li chiamano gli "Armandini") sono impegnati nell'accoglienza.
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Alberto Lupini
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