C’è un malessere che serpeggia nel mondo della ristorazione italiana, un malessere che da anni non riesce a trovare risposte, che non riesce a trovare un punto d’incontro e di dialogo, due mondi che da troppo tempo si guardano, si osteggiano, si usano con diffidenza, ma senza creare qualcosa che dia una speranza proprio a chi sta nel mezzo, i futuri cuochi, i futuri addetti di sala, gli allievi delle
scuole alberghiere e di formazione di cucina. Eppure in un paese come il nostro in cui l’ospitalità e il cibo sono e saranno una delle reali possibilità di crescita e di occupazione giovanile qualcosa bisogna fare.
Il governo in realtà, qualcosa sta facendo, con il decreto “Buona scuola” qualche cenno di riforma scolastica si intravede. L’alternanza scuola lavoro è la chiave e la risposta ai molti dei problemi accennati? Forse. Cercherò di approfondire la questione. Qui da noi in realtà, le norme lavorative hanno messo in soffitta il vecchio apprendistato, un istituto fondamentale che ha avviato al lavoro centinaia di migliaia di giovani delle vecchie generazioni, mentre l’istituto dello stage è stato osteggiato dai sindacati che ne hanno visto uno strumento di sfruttamento del lavoro da parte delle aziende. Ormai sono 6 anni che insegno cucina con esperienze diverse: corsi serali di adulti e allievi del triennio superiore in scuola professionale, allievi tra i 15 e i 18 anni.
La mia esperienza in questi anni nella scuola, in realtà mi permette di tracciare una visuale reale, non posso non sottolineare le enormi carenze del sistema scolastico professionale, come i
docenti che non vengono formati. Non si può certamente chiedere ai docenti di frequentare ristoranti stellati, ma qualcosa si dovrà e cercare di fare. Spesso sono coinvolti in ore di aggiornamento, come la legge richiede, per esempio sulla sicurezza, ma se dovessimo chiedere a molti di questi cosa è un paco jet, un roner, cosa sono le cotture a bassa temperatura, a vapore, sottovuoto, ne avremmo risposte deludenti. I programmi di studio sono lontani dalla realtà, inteso come pratica di cucina, i ragazzi studiano tecniche di cucina non più in sintonia con quanto accade nella realtà lavorativa, le difficoltà economiche, poi degli istituti, non permettono l’acquisto di strumentazioni moderne, e spesso anche l’acquisto di materie prime di qualità.
Posso affermare che il timore della categoria dei ristoratori su una distanza professionale tra il momento formativo e il mondo del lavoro sia una percezione reale, tra l’altro confermata sul campo quando i ragazzi realmente si confrontano proprio durante i momenti di stage. I giovani cuochi ammaliati dalle prodezze televisive di molti cuochi, confondono le fatiche del lavoro in una vera cucina con lo spettacolo dei vari “Masterchef”, convinti come sono in tanti che per diventare bravi cuochi bastino pochi anni di scuola o frequentare qualche mese scuole private che stanno sorgendo in ogni città, anzi in Toscana qualcuno ha coniato lo slogan “
Cuoco in sei giorni”; speriamo che nessuno abbocchi.
Faccio il ristoratore da oltre 25 anni, da 10 cucino presso il mio ristorante, certo sono stato aiutato da una gavetta speciale, da esperienze precedenti nel settore alimentare dell’alta cucina; Longino & Cardenal, Selecta, Gran Chef, Jolanda de Colò, Vini Ruffino, Marcomini Formaggi, Savini Tartufi, Bicchieri Riedel, Argenteria Broggi Izar, sono le aziende con cui ho collaborato in tanti anni, aziende che in molti casi ho sviluppato ma da cui ho ricevuto grande conoscenza e competenza sulle materie prime, che oggi cerco di trasmettere ai miei allievi. Facile direte… magari!
Non ho elencato tutto questo per una questione vanitosa ma solo per testimoniare che per fare questo lavoro sono necessari anni e anni di preparazione, pratica e culturale, che in qualche maniera c’entra con i percorsi di studio e formativi della scuola professionale. Quali sono i percorsi formativi delle
scuole alberghiere?
Non c’è incontro di settore, politico o di promozione, in cui non si punti il dito contro la preparazione dei giovani cuochi e quindi inevitabilmente contro la scuola, rea di fare poco per preparare nuovi e bravi cuochi e addetti di sala. L’ultimo confronto di questo tipo si è svolto
lo scorso dicembre all’Hotel Gallia, in occasione della presentazione della
guida Euro-Toques Italia, alla presenza del maestro Gualtiero Marchesi. La scuola non forma, la scuola non ha didattica, la scuola è lontana dal mondo del lavoro, i docenti non sono aggiornati, i ragazzi che studiano sala non sono all’altezza, i giovani non hanno passione; queste alcune delle accuse fatte al settore formativo.
Ed è importante sottolineare che a questo incontro hanno presenziato relatori esperti quali Lino Stoppani e Aldo Cursano, presidente e vicepresidente di Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), Riccardo Garosci già parlamentare europeo ed attuale presidente di Commissione presso il ministero della Pubblica istruzione, e oltre 100 cuochi tra i migliori d’Italia. Alcuni degli intervenuti oltre a rimarcare la grande distanza tra la scuola e il mondo del lavoro, hanno ancora una volta denunciato l’assenza di una reale politica di stage. In Francia, di cui l’indiscussa leadership della ristorazione non è in discussione, gli stage sono un complemento reale al percorso formativo, mesi e mesi passati nelle cucine a fare pratica.
L’alternanza scuola lavoro è in realtà una delle nuove volontà che la politica ha messo in campo. 400 ore di stage sono la nuova frontiera delle terze e delle quarte, con cui gli istituti professionali debbono misurarsi, quasi tre mesi da trascorrere all’interno di ristoranti e alberghi, non male. Tre mesi sono una buona esperienza per allievi di 17/18 anni, non ancora a livello dei francesi, ma in grado di trasmettere e di insegnare qualcosa di vero e importante.
Ma, perché c’è un ma… l’esperienza diretta sull’argomento mi permette di replicare ai tanti cuochi e ristoratori che si lamentano della scuola. I diretti interessati cioè gli imprenditori, forse necessitano anche loro di qualcosa di formativo, per esempio debbono modificare il loro comportamento. Le nostre aziende della ristorazione sono microaziende, molto più piccole delle francesi, ma purtroppo non posso non sottolineare che non abbiamo la cultura nell’accogliere stagisti e ora con la possibilità di 400 ore, l’impegno comincia a essere importante. Molti di chi leggeranno questa mia opinione, capiranno cosa voglio intendere: va bene far pulire verdure e piatti ai giovani stagisti, ma qualcosa in più bisogna “dare”. Bisogna trasmettere passione, bisogna far innamorare di questo lavoro i giovani, fargli capire la bellezza del nostro lavoro, e allora tra le nuove norme e più volontà di tutti, forse la ristorazione potrà trovare una nuova risorsa importante e qualificata.